Il Buddhismo Loro e il Tuo Fontana Editore

Il Buddhismo Loro e il Tuo

Leonardo Anfolsi

Oramai si è verificata una scissione insanabile fra il buddhismo orientale e quello occidentale, fra il buddhismo in quanto istituzione e il buddhismo in quanto risveglio o passatempo.

È una situazione che sembrerebbe nuova quanto inevitabile, che non costituisce, e non deve, un tradimento nei confronti del passato, ma semmai una nuova sfida per vivere al meglio questi tempi.

Non è niente di nuovo, appunto, sempre che uno abbia letto un po’ di storia del buddhismo e non si sia bloccato sull’assunto ridicolo “meglio non studiare per non coltivare l’ego e i troppi pensieri”. Molti cambiamenti sono avvenuti nei secoli, nel buddhismo, e più che mai nello zen.

A disconferma delle preoccupazioni an-egoiche di molti, il maestro Saicho innescò un braccio di ferro con la corte imperiale, nell’VIII secolo, dato che portando il buddhismo universitario tendai in Giappone aveva capito che necessitavano dei voti monacali parziali per aderire alla concezione di vita laica tipica della mentalità giapponese; l’altro ieri, nei secoli XIX/XX, i maestri zen dovettero obbedire all’imperatore e al nuovo corso materialistico/industriale, spegnendo tutto il loro carisma, il loro potere e addirittura armandosi e armando i propri monaci per aderire al corso imperialista indetto nell’era Meiji.

In mezzo a queste ere, in tal senso, è successo di tutto. Per non dire di ciò che accadde in Cina.

Quindi. Quello che ci interessa è capire che quando diciamo “zen”, a parte la divertente dieresi contemporanea fra “square” e “beat” zen, abbiamo secchiate e secchiate di variabili storiche, di esperimenti, di esperienze e di conferme o di eliminazioni nel corso di duemila e cinquecento anni.

Sempre se vogliamo credere che il Buddha un giorno alzò un fiore sbalordendo Khasyapa.

Ne parleremo presto.

Due partiti si oppongono nel mondo della finzione spirituale: tradizionalisti e innovatori.

La faccio breve per chi non fosse interessato all’argomento, a che possa saltare il prossimo paragrafo; gli uni pretendono di rappresentare la tradizione o, comunque, di significare qualcosa nella continuità secolare di questa, soprattutto citandone in modo enfatico le parole ed i conseguimenti; gli altri ritengono che sia tempo di innovare quanto la tradizione – per loro consunta e desueta – rappresenterebbe, e che con molta probabilità costoro non conoscono dal vero, ma solo a parole. Come si vede, il problema consiste principalmente di parole, citate impunemente o mal digerite.

Il prossimo paragrafo (evitabile)

A riguardo della stoltezza tradizionalista rimando alle sensate risposte che ricevette René Guénon, a causa delle sue più galliche affermazioni, da Henry Corbin, Anand Kentish Coomarswamy, Arturo Reghini e Marco Pallis.

Al contrario, un caso tipico di innovativismo, quindi di mal digestione della tradizione, è stato Jiddu Krishnamurti, a cui va il merito certamente di avere dialogato con alcuni scienziati aperti al ragionamento, ma ahimè va a detrimento quel disastro del suo (non)insegnamento nel quale si confondono sociologia con ricerca (collettiva?) del risveglio, in una sorta di epos letterario/epocale che ci ricorda i bei tempi profetici andati, in cui figurava come il nuovo avatar epocale “Alcyone”. Ho personalmente constatato la deriva della fondazione che porta il suo nome, in Ojai, CA, dove pochi e nascosti spiriti liberi sorreggono lo sgomento di questi tempi.

E dire che, Lui stesso, non poteva dirsi certamente “una persona inconsapevole”, come certamente non lo era neanche il pur ingenuo Guénon, ma tant’è il potere pervasivo che ha lo spirito dei tempi, quando lo si accolga a causa di una qualche reattività personale.

Trasmissione diretta versus trasmissione diaconale

Lasciate alle spalle queste disquisizioni veniamo a noi: la tradizione o la si realizza - quindi la si incarna - oppure la si rappresenta e basta. Trasmissione diretta versus trasmissione diaconale o, peggio, vicariale/simbolica, come sovente accade in ambito cattolico e massonico. Peraltro, già nel buddhismo chán, si parlava di una “trasmissione della lampada” che in realtà non sarebbe consistita in una trasmissione di alcunché. Perché?

O succede o non succede?

Vi partecipa tutto l’universo?

È tutto l’universo?

Cosa succede al “mondo finora conosciuto” nel momento di questa nuda percezione della realtà?

Sopravvive in questa immensità qualcosa come “la verità”?

...E che cosa è il “potere dell’esperienza” che questo pedante tizio-zen continua a ribadire?

La vita stessa non è forse “esperienza”?

E che dire di coloro che cercano di incontrare o sentire gli angeli? Non basta loro l’esperienza ovvero, che so, guardare il cielo?

E se davvero incontrassero un angelo saprebbero riconoscerlo? Oppure riuscirebbero a sopravvivere all’allarme, alla paura, alla potenza di quell’incontro?

E gli alieni? Non è forse alieno da se stesso chi non vede il mistero in se stesso/ovunque?

Dovrà trasalire di paura o di mistero – cinematografici però - per sentirsi vivo o potrà accorgersi che sta vivendo? Che razza di tremito o di tsunami è vivere davvero?

A quando l’esplosione definitiva di questo sole innato, di questa esperienza nuda?

Chiamiamo questa esplosione “condivisione”, che forse è più accettabile oggi, o la chiamiamo magari “ingresso” se non “ingredere” come è concepito per esempio nello dzogchen in quanto “grande perfezionamento”? Accade in tempo davvero reale.

Un po’ di Tibet

È interessante notare, in base a studi recenti, come la tradizione dzogchen fosse storicamente affratellata con quella chán/zen; i tibetani chiamarono héshang móhēyǎn, ovvero “oshang della scuola mahayana” (和尚摩訶衍), gli anziani-del-chán di stanza a Samye, in Tibet, proprio dove si tenne il famoso dibattito fra buddhisti indiani versus cinesi di fronte al Re Tri Song Detsen.

Ecco apparire proprio nella tradizione tibetana - quando si imbriglia lo dzogchen in una delle scuole mahayana - una “iniziazione al rigpa” che ha anche conferito l’attuale Dalai Lama, ovvero una introduzione simbolica/diaconale allo stato primordiale, basata su formule e su di un urletto tranchant. È certamente difficile dire se abbia senso, mentre invece - come è nel chán/zen e nello dzogchen autentico - si è da sempre considerata la trasmissione del lignaggio solo in termini di esperienza diretta e perciò in quanto esperienza individuale di risveglio, facilitata da un maestro e da una disciplina. Sia essa esperienza del risveglio – tradotto in “zenese” – in quanto kensho (provvisorio) o satori (ben stabilito). “Satori” è il punto di non ritorno.

Il maestro dzogchen bonpoShardza Tashi Ghyaltsen ebbe, in effetti, da ragazzo, una esperienza di vero satori, descritta proprio come la avrebbe raccontata un monaco zen chiacchierone come me.

Kalyāṇamitra o upādhyāya?

Ritroviamo lo stesso maestro per lo zen, lo dzogchen, ma anche per tutta la tradizione storica buddhista, sia nel più tradizionale theravada che nell’innovativo mahayana.

Cos’è o chi è il maestro in tutto ciò?

Non è né un tulku, né un rimpoche, coi loro baldacchini e troni imponenti, o un roshi ammantato di sete paradisiache, ma è il vecchio kalyāṇamitra, l’amico spirituale dei tempi del Buddha, l’oshang (“anziano”).

Kalyāṇa-mittatā (善知識) è la nobile-amicizia o amicizia-spirituale.

La kalyāṇa-mittatā eccotela nell'Upaddha Sutta (SN 45.2) del Canone Pali, dove c'è una conversazione tra il Buddha e il suo discepolo/cugino Ananda ove quest’ultimo dichiara: "Questa è metà della santa vita, signore: ammirevole amicizia, ammirevole compagnia, ammirevole cameratismo".

Il Buddha gli risponde: “Non dire così, Ananda. Non dirlo. L'ammirevole amicizia, l'ammirevole compagnia, l'ammirevole cameratismo è in realtà l'intera vita santa. Quando un monaco ha persone ammirevoli come amici, compagni e compagne, ci si può aspettare che sviluppi e segua il Nobile Ottuplice Sentiero”.

Qui il Buddha afferma che attraverso l'amicizia spirituale, con il Buddha stesso e gli altri monaci, i discepoli ottengono la liberazione dalla sofferenza.

Quindi ecco il senso del “sangha”, ovvero della compagnia virtuosa, kalyāṇa-mittatā.

Il कल्याणमित्र, l’amico-spirituale è kalyāṇamitra, quindi il tuo confratello e pure il tuo maestro.

In tal senso ecco che ritroviamo nella tradizione zen la parola roshi, derivata dal precedente “roso”, dall’ancora precedente “osho”, termine catturato da Rajneesh per la sua dolce assonanza col “femminile”, o con un ganascino, se non con un gelato all’amarena; Osho, è un nome o termine che deriva proprio dal cinese oshang, cioé “anziano”.

Poi c’è nella tradizione buddhista un concetto secondario legato alla maestria, quello di upādhyāya, उपाध्याय<, ovvero di insegnante-responsabile o precettore che è però più come un “disciplinario del sangha”, uno studioso e commentatore dei testi, oppure un “abate”, titolo che è conferito, almeno, dopo dieci anni di frequentazione di un monastero e del relativo sangha.

Nel momento in cui il rango nobiliare – come in occidente nel fenomeno dei “cadetti” – prende forza anche in un sangha, ecco la creazione di tutte quelle attese e sovrastrutture troppo umane che dipendono sovente dalla derivazione “notabile” di qualche discepolo, che sarà destinato ad un alto grado nel sangha. Non avrei niente contro ciò, considerando che in momenti storici di crisi, nel passato, l’unica possibilità di risorgere era di basarsi sulle certezze relative a censo e cultura, quindi, almeno su di una trasmissione diaconale non diversa da quella vescovile cattolica; ma, come dire, i tempi ora sono molto differenti, e ci impongono una diversa gestione della traditio e del prius.

Il Buddha d’Occidente: tathāgatagarbha VS tathāgatagarbage

Per cultura, intelligenza o inganno, noi occidentali siamo propensi ad interessarci di tante cose come anche di non fermarci su di un solo percorso. Vogliamo capire, quindi vogliamo riuscire ad avere una idea precisa, un bersaglio finale o, almeno un idea anche vaga di dove stiamo andando.

La nostra inevitabile “cartografia spirituale” ci chiede una bussola, un tenere la barra dritta e il credere, almeno, di sapere dove andare.

Solo quando abbandoniamo questa aspettativa, consapevolmente, essendo noi diventati la bussola e la barra, come un tempo si abbandonava la dipendenza dal maestro per realizzarci, allora!, realizziamo la nostra eredità ovvero il tathāgatagarbha, il ventre gravido del risvegliato che è in noi.

Ammazzarci di zazen o di lunghe, interminabili litanie non sembra fare per noi; ma anche studiare la filosofia buddhista, così apparentemente schematica ma terribilmente elusiva, non ci pare sufficiente, anche perché avremmo bisogno di una maestro/poeta che sappia affiancare alla logica numinosa e tagliente di Manjushri la dolcezza incontenibile e beata di Awalokiteshvara, ma anche la potenza evocativa e terribile di Vajrapani.

Ma in genere, chi è più smarrito, cerca un maestro che non faccia male a una mosca, o al contrario un ipnotista transcaucasico, oppure un erudito tuttologo. Solo i più pronti capiscono che troveranno un uomo, una donna, e che non li aiuterà il maldestro tentativo di voler parlare solo col Dalai Lama o con altri lama più noti o di rango. In lui il maestro si nasconde come si nasconde per il mondo.

Possiamo aggiungere la problematica del “rispetto” ovvero della “diversità” ma, in realtà, della più indebolente “correctness”. Come non mai vorremmo presentarci al dharma e al maestro in quanto “bandiera di noi stessi” e possibilmente in modo completo, tipo “praticante di colore omosessuale motociclista portatore pacifista di armi da fuoco di calibro 21, forse zen, molto impegnato e creativo”.

Evidentemente chi ritenga che io abbia escluso o citato appositamente qualche categoria penserà che sia stato “razzista” e la cosa mi diverte, quindi è colpa mia.

Del resto ogni maestro di dharma sano di mente DI FRONTE A UN SIMILE SBANDIERAMENTO risponderebbe: “....E chissene…?”.

E se fosse orientale “...Eeeh? Come, scusa?”.

Aggiungiamo a quanto detto il momento difficile, che si protrarrà giuridicamente per poco ma economicamente per molto, e ci accorgiamo che veramente il discepolo ha un solo motto: “carpe diem”, che purtroppo si traduce nell’immediato in un “si salvi chi può”.

È sciocco richiamare all’ordine – chi sarebbe il maestro per farlo? - dato che oramai è fuori squadra tutto l’assetto.

Ἁρμαγεδών Kurukshetra Ragnarok

Siamo in guerra. I nostri basilari diritti, finora considerati inalienabili, vengono calpestati quotidianamente con la scusa di una pandemia da “raffreddore assassino”, potenziata da un ovvio effetto nocebo e con protocolli inspiegabili dai politicanti, che viene reiterato dai media comperati – nemmeno si peritano di nascondere questo ma ne fanno un decreto - moltiplicato per la pulsione di morte collettiva, con la partecipazione delle principali organizzazioni internazionali sponsorizzate da multinazionali che ci vogliono schiavi in previsione della quarta rivoluzione industriale e di una ipotetica, ritrovata, armonia ecologica. Tutto questo lo si può dire soltanto in unico fiato, mentre i più addormentati fra di noi implorano il sacramento salvifico da coloro che ne hanno programmato l’obsolescenza.

Detto questo posso capire come mai non si abbia tempo per ritrovarsi, o di come ciò sia duro nel momento in cui al dolore dei tempi si dovesse sommare la frizione della ascesi, anche se fosse tagliata su misura.

Che fare? È come pesare le rane.

Io non “faccio” nulla, io accolgo, ma non più organizzando o nutrendo un gruppo.

Inutile che mi dia da fare come uomo fra gli uomini, io devo camminare come tutto, ovunque, cammina, minuscolo, nemmeno esistente, eppure immane.

L’Insegnamento è vivo nel momento in cui il Buddha cammina, respira, guarisce, beve, parla.

Se non si potesse più dire “maestro” lo chiameremo “amico”, se non ci fosse più “religione” parleremmo di “libertà”, se non si potesse più dire “libertà” diremmo “assorbimento”, se non ci fossero più “discepoli” sarebbero “praticanti” e se non ci fosse più concesso di capire, o non si dovesse, allora la questione sarebbe “guarire”, o anche “combattere”.

Il segreto del fiore d’oro

Il Buddha storico, Shakyamuni, o forse il Buddha che è in noi, è ancora là a contemplare un fiore – talvolta succede, no? – però un fiore d’oro.

Perché è d’oro? Perché è speciale, ha valore, emana (metafisicamente) e riflette (fisicamente) luce, ovvero rimanda quella luce che fa crescere le piante e nutre l’ipotalamo.

E per il buddhismo la parola “fisico” non vuole dire “anatomico” ma con-fuso col tutto, imparentato con ogni cosa, essendo co-emergente con tutto l’universo.

Eppure resta un fiore, cioè è vivo anche se è reciso.

Ecco il Buddha in noi, che mostra il fiore d’oro e lo contempla dagli occhi stupiti di Kashyapa.

Il monaco anziano Kashyapa ridacchia scomparendo in quella scena gloriosa e semplice.

Anche se il Buddha lo riconobbe come “grande”, Mahakashyapa, il vecchio monaco, non tornerà più indietro essendosi impastato con la polvere, il fiore, il Buddha.

Quale zattera lo porterà oltre ogni riva, zattera/upāya che lui lascerà subito dopo che ha passato i flutti?

Non sarà né di canna né di titanio, perché nessuno lo ascolta se prova a dire ovvietà o formule.

Non ha valige o sacco. Dormirà dove trova una tettoia per ripararsi.

Mediterà nella arsura e nel freddo e senza timore degli insetti, perché tutti gli esseri sono con lui.

Gli esseri se ne accorgeranno? Sono già morti? Temono di muoversi da dove sono rintanati?

Ancora cammina, Mahakasyapa, posando normalmente i piedi per terra, ma su di una terra sconfinata, portando all’illuminazione così, solo camminando, tutti gli esseri.

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