Sacred art – Leonardo Anfolsi intervista Marco Bagnoli
Marco Bagnoli è un artista che ha da sempre conservato un senso sacrale dell’arte e dell’ispirazione.
Ci è stato già presentato nel secondo numero di NitroGeno dal critico, curatore ed esperto d’arte Pierluigi Tazzi, assieme ad altri artisti vicini all’idea di trasformazione/creazione e di operatività che manifestino temi vicini all’Alchimia. Dopo la formazione scientifica culminata in una laurea in chimica, Marco Bagnoli si impone sulla scena artistica già nella seconda metà degli anni Settanta e da allora la sua presenza è continua, pervadente e originale. Dopo la formazione scientifica e una laurea in chimica, Marco Bagnoli si impone sulla scena artistica già nella seconda metà degli anni Settanta e da allora la sua presenza è continua, pervadente e originale. Considerando che l’arte contemporanea persegue l’abbandono di tradizione e, sovente, di ogni senso della sacralità, Marco Bagnoli rappresenta una diversità che ha richiamato il plauso di Andy Warhol - che lo consigliò ai collezionisti americani del periodo - Joseph Beuys ed Harald Zeeman, Jerry e Gilda Sherman di Baltimora, come anche l’attenzione di collezionisti molto raffinati, fra i quali i coniugi Buby e Lucrezia de Domizio Durini, i coniugi Nancy Olnick e Giorgio Spanu a Garrison NY, Christian Stein a Milano, galleria Mario e Dora Pieroni di Roma, Vittorio Dapelo a Genova, Longo a Cassino e poi musei di arte Contemporanea prestigiosi come quelli di Rivoli, Lyon e Prato. Una sua scultura è installata nella Villa medicea di Pratolino, villa fondata nel XVI secolo dal Granduca alchimista – Francesco I De Medici – che ebbe a Pratolino come architetto l’alchimista Bernardo Buontalenti. Fra i simboli più usati da Marco Bagnoli ci sono la “banda rossa”, una figura geometrica disegnata con le proporzioni auree, la “mongolfiera” che ci ricorda il movimento della circolazione all’interno di un matraccio, ma anche la circolazione dell’energia nel sistema umano, e il quinconce, cioè la disposizione mandalica o cruciforme con un centro e quattro direzioni. Oltre ciò, come osserva Pier luigi Tazzi, la "X' del quinconce rappresenta anche la contrazione finale della formula SPAZIOXTEMPO, e della sua derivata IOXTE, che ricorre in molte sue opere din dal 1975 ed è titolo delle sue pubblicazioni . Inoltre il ricorso alla disposizione a quinconce si prospetta anche come modello di una continua espansione: ciascuno dei quattro punti di un quinconce può virtualmente diventare il punto centrale di un ulteriore quinconce, all'infinito.
LA - Che cosa è per Marco Bagnoli il sacro nell’arte?
MB - Il Sacro è oggi percepito in maniera diffusa, è disperso o in sospensione nell’esperienza umana essendo talvolta “spiritualità” o nemmeno avendo una designazione; è sempre meno concentrato in punti specifici dell’esperienza come lo sono quella religiosa, mistica, ascetica. Certamente gli artisti fanno la loro parte in questa dispersione con la loro dissimulazione, ed ecco che oggi il sacro ci ricorda un certo paradosso, essendo dappertutto ma non avendo centro in nessun punto preciso.
LA - Se non mi sbaglio prendi ad esempio le forme architettoniche classiche per derivarne un significato che riguarda la percezione, e quindi il significato profondo quindi estetico.
MB - Sì, infatti. L’antica forma della cupola, se la riprendiamo dall’architettura bizantina, come da quella ebraica e islamica, era a forma emisferica, volendo riferirsi all’archetipo della sfera celeste mostrandosi perciò senza una cuspide e priva di una centralità immediatamente rilevabile dall’occhio; in questa circostanza ogni punto di osservazione poteva essere un punto di centralità rispetto a un asse, che in realtà non c’era o era enorme o, per così dire, compreso in tutta la cupola. Compito del sacerdos di ogni religione era quello di portare le moltitudini a entrare in relazione con il cielo riunendo tutte le prospettive in un insieme coeso da smarrimento-fede-rinvenimento. Quindi il Brunelleschi e gli altri, con la loro rivoluzione rinascimentale, non fanno altro che centrare un asse prospettico che esclude altre possibilità. Eccoci, con questa metafora architettonica nella prossimità al sacro, giammai nella sua traiettoria. E non è forse così che, oggi, la profanità si può declinare comunque come prossimità al Sacro? E così il Sacro – in quanto spiritualità dispersa - si afferma come il rinvenimento dell’unica centralità data, a cui si riferiscono l’Io Sono, il Puro Testimone e la Coscienza intesa come - e riportata ad un – risveglio.
LA - Mi pare che un tuo particolare lavoro, quello alla Cappella Pazzi, sia stato un momento importante di una tua rivelazione in tal senso...
MB - Sul secondo numero della rivista Spazio x Tempo, Paolo Marinucci, nel suo intervento “Kevalalila” scrive a riguardo di “una circonferenza che è ovunque, mentre il centro non è in nessun luogo”, aggiungendo una nota che rimanda ad Ibn Arabi, secondo Guenon.
Questa frase è molto citata fin dall’antichità. In "Altre inquisizioni" Jorge Luis Borges cita a proposito una frase apparentemente simile, ma di opposto senso attribuita a Ermete Trismegisto che, secondo il breve racconto dello scrittore, suonerebbe infatti: "Dio e' una sfera intellegibile, il cui centro sta dappertutto e la circonferenza in nessun luogo". Borges ci narra che l'ha trovata Alanus de Insulis nel testo ermetico Asclepio, scritto da Ermete Trismegisto, e ne insegue le avventure fino a Blaise Pascal. Questa inversione di senso proveniente da una diversa intenzione dovuta a epoche e a mondi diversi definisce, letteralmente e a causa di queste circostanze, una direzione che andrebbe verso la dispersione della causa nell'effetto. Dunque l'assialità, tradizionalmente concepita nell’occidente cristiano come la chiave di volta del sacro, si disperde nella conquista di una qualche resa prospettica, mentre a me ogni prospettiva non basta e intenderei – ovunque - una scacchiera in cui orientare lo sguardo quando è reso libero dalla traiettoria di un punto di vista che sia fondante o relativo.
Scrivevo: "Il centro è ovunque e in qualsiasi direzione, il centro dunque accerchia la visione". E lo riferivo a proposito di un’opera che installai nella cappella Pazzi a Firenze, dentro la chiesa, in quel monumento sferico del Brunelleschi dove la cupola sorge sulla forma quadrata che la sorregge. Quindi la scacchiera qui si rifletteva in una proiezione sferica verso l’alto, divenendo nell'occhio un quadrato di luce riflesso nella cupola, che è il cielo col suo zodiaco.
Tra l’emanazione conica della nostra vista e la sfera della visione che l’accoglie, accade qualcosa che ci rende una inaspettata rivelazione; dallo spazio centrale, guardando in su, la vista conica va verso l’alto in tangenza con la forma sferica, ed è così che si crea un sottile contorno iridescente. È grazie al contorno però, indefinito e cosmico, che si rivela il centro occulto emanante – che resta tale anche se è evidente.
Gli antichi giocavano con la parola “pupilla” come chi non la vuole relegare a mero fatto anatomico. Così pure sarà per la natura della luce, che da Sorahvardi a Einstein apparirà sempre più evidente ma sempre più indimostrabile e ineffabile, quindi costante universale e anche orizzonte d'eventi; per me, scacchiera.
LA - Quindi: se la perdita di un senso assiale di riferimento riguarda questi tempi, tale perdita è per te una profezia, una traccia o un epifenomeno?
MB - Essendo dappertutto il Sacro, oggi, viene rinvenuto in tutti quei momenti in cui è evocato volontariamente e, soprattutto, legato alla coscienza, alla consapevolezza in cui un atto è compiuto.
Il Sacro oggi è una apertura verso, ma è perciò un chiaro rifiuto di ogni stasi. Un concetto di sacro è poco funzionale all’arte, più che mai oggi, sia che il sacro nell’arte venga richiesto, sia che venga evitato. La perdita di un senso assiale è certamente una considerazione interessante, eppure non è che una versione dei fatti, sulla mia scacchiera.
Quando lavorai ad una mia mia scultura, “la mongolfiera” nella Sala Ottagonale del San Gallo alla Fortezza da Basso, a Firenze, mi accorsi che vi era una buca ottagonale corrispondente dal basso alla chiave di volta della cupola lassù (punta l’indice e lo sguardo verso il soffitto), sulla cupola, peraltro identica in proporzione a quella del Brunelleschi in Santa Maria Novella.
D’impulso pensai di riempire la buca ottagonale di liquido mercurio, e così feci.
Fatto sta che quella buca rispondeva geometricamente alla chiave di volta, alla cuspide della stanza, a cui era connessa da un’asse geometrica; ebbene, guardando dentro alla pozza per guardare di riflesso la cuspide, inevitabilmente, si guardava il proprio volto. Trasposi questo elemento nell’installazione in modo che potessi guardare di riflesso nel mercurio la cima della mongolfiera - che in questo caso chiamai “l’anello mancante” - ma non potessi vedere la cuspide centrale della cupola. Quindi potevo vedere l’apice di questa forma, ma non l’apice di ciò che conteneva questa forma, mentre inevitabilmente, cercando quell’apice, ero costretto a contemplare il mio volto.
LA - Quale è la connessione fra il sacro della tua arte e quello della tradizione?
MB - Oramai la distanza dalla tradizione è stellare.
Ascoltavo un’intervista a Lucio Fontana, dove innanzitutto considerava come nei tempi antichi c’era una enorme quantità di persone che lavorava nell’arte e attorno ad essa, mentre oggi questo numero si è ristretto e le persone che vi abitano si sono molto, molto specializzate. Verrebbe quindi da pensare che in qualche modo l’arte, quell’arte, non sia più necessaria. E con ciò si ritorna a quanto detto poco fa. Quindi essendo che la creazione artistica, in quanto evocazione di una tensione estetica, non può che essere contagiosa, ciò ci porta a interrogarci su quell’intreccio che era tutto attorno all’arte in quanto motore di cultura e civiltà.
Che dire della creazione di una bottega, oggi come allora, o della vitalità di una committenza colta?
Mi chiedo come tutto ciò possa tradursi oggi, o come noi possiamo determinare un mutamento positivo nell’attuale tendenza. Penso alla vulcanica creatività dei giovani artisti e su come questa possa trovare compimento, in particolare nel momento in cui scoprano una loro sincera pulsione verso il sacro. Una delle possibilità è concepire l’arte in tutto e in ogni gesto quotidiano, come disse Beuys, ma anche questo va certamente considerato con cautela e nel senso preciso in cui Beuys produsse questa considerazione.
Voglio citarti qualche frase dall’intervista di Fontana. (Cerca fra le pagine di un libro)
“Non posso parlare del futuro. L'uomo camminerà sulla luna, su Marte. L'arte può finire . Non è una necessità, malgrado tutto ciò che ci raccontano: mangiare, dormire sotto un tetto, proteggersi dal freddo, sono cose importanti. L'arte serve sempre meno, rimpiazzata dagli ingegneri, dalla macchina. Se vuole continuare deve evolvere, diventare più filosofica” .
Questo io feci e ho sempre fatto, ancora prima di avere letto quest’intervista. In un luogo selvaggio della pianura d’Olanda, feci volare una mongolfiera da un vasto terrapieno appositamente preparato e che poteva essere solo visto dal guidatore e non dal pubblico che si accalcava attorno all’accadimento. Questo fu l’inizio di qualcosa che compresi solo dopo nella sua piena portata simbolica, riguardante per esempio la visione dall’alto, come è - non a caso - nella visione pittorica dei pittori olandesi e particolarmente in Vermeer.
Questo è un bisogno insopprimibile di staccarsi da terra. Ma la mongolfiera prende il volo perché si affermi il significato simbolico dell’elemento aria, affinché questo sia scomposto chimicamente in elementi gassosi come azoto, idrogeno e via così, come accadde con la chimica dei gas del chimico Cavendish. Ma nessuno avrebbe mai pensato – prima di allora – ad avere il bisogno di staccarsi da terra, ma ciò è coincidente col momento in cui questo bisogno di vedere dall’alto cambia anche la nostra visione di cosa sia l’aria. Questo è un passaggio cruciale dall’Alchimia alla Chimica, entrambe però concepite nel loro riposto e fondante significato metafisico. Il risvolto pratico di questo passaggio fu proprio l’idea di innalzarsi per guardare dall’alto. La funzione solare dell’occhio rimase incorrotta, come un laser dall’alto poteva spaziare anche su particolari fino ad allora non notati, e tuttavia la sfericità dell’ikonostasis bizantina fu persa; ma una visione dall’alto iniziò ad affascinare l’uomo dandogli nuove prospettive.
Scrive della mia mongolfiera il critico d’arte Fulvio Salvadori: “In solitudine l’occhio acquistava allora una effettiva solarità, e il potere di illuminare, dall’alto a suo piacimento le cose”.
E ancora (legge da un testo): “In effetti lo sguardo che sale si stacca da quelli della folla ancorata al suolo e, sottraendosi al senso comune delle azioni, ne riconosce allora freddamente la molteplicità e la simultaneità; ogni particolare che lo attragga viene allora isolato e può venire considerato a parte. Tuttavia ciò che era stato rimosso era stato, ancora una volta, celato. Il volo della mongolfiera avveniva nell’aria in una regione intermedia tra cielo e terra, sospinta verso l’alto dal fuoco, e rendeva possibile lo scorrere dell’attenzione sul territorio: nel volo infatti la vista restava soggetta al campo gravitazionale della terra, e non era rivolto di solito al cielo. La teoria dei quattro elementi ha un’essenza metafisica e perciò non è legata alla storia e alle sue vicende: indica in senso metaforico le coordinate di una visione interna dell’anima. L’innalzarsi della mongolfiera aveva provocato una trasformazione di quelle coordinate, ma non le aveva eliminate”.
LA - A riguardo dell’Alchimia – che hai evocato sovente nelle tue opere – cosa ci vuoi raccontare, e quali sono i momenti storici topici che tu hai vissuto nelle tue evocazioni alchemiche?
MB - Innanzitutto devo fare due considerazioni parallele. La prima è che, in tutta evidenza, l’Alchimia costituisce un tema ispirante la mia arte; peraltro io nasco come chimico laureato, anche se questo fu solo un appetizer rispetto al mio interesse successivo. Ma, soprattuto, la seconda è che da artista cosciente della mia funzione nel mondo, posso ripetere quello che disse Duchamp a Schwarz quando questi lo definì alchimista: “se sono stato un alchimista, questo è accaduto senza che io lo sapessi”.
Anche James Elkins si è accorto della contiguità fra arte e alchimia ma anche della differenza di funzione fra alchimista e artista. E forse grazie al linguaggio alchemico ci si può meglio avvicinare alla parabola creativa di, che so, un pittore. Ne cito qualche riga:
“Tuttavia qualsiasi libro in proposito è destinato a fallire; Perché dovrebbe esplicitare molte cose che gli artisti non dicono neanche a se stessi, e violerebbe drasticamente i confini fra l’esperienza della pittura e il suo significato. Lo stesso dicasi per l’Alchimia in entrambi i casi l’atto soggiacente è spirituale mentre il linguaggio della sua divulgazione è inconsistenze e debole”.
Ecco, vedi, è proprio questo il principio che si equivale nell’arte e nell’Alchimia, dove l’esplicitazione viene meno. Ed ecco come mai il simbolo riesce a soccorrere così efficacemente e ad esprimere questi misteri.
"Nell’esplicitare il significato spirituale in pittura, l’Alchimia ha il vantaggio rispetto alla teologia, alla psicologia di Jung o alla critica d’arte, di essere una disciplina consorella.
Anche l’Alchimia è schiva, si cimenta sulle sostanze e lascia che si riempiano silenziosamente di significati invece di dichiararne la presunta preziosità”.
LA - Non è certo un caso che tu abbia operato in luoghi alchemici come Firenze e a Praga, dico bene?
MB - Sì, certo, e in quei luoghi mi sono più volte espresso nelle esposizioni museali con simboli legati all’alchimia, apprezzando il ruolo che l’alchimia ebbe e ancora ha nella civiltà e nella nostra storia. L’Italia palpita di alchimia e anche a Parigi, come a Praga, si sente questo legame molto forte e ancora vivo.
LA - La tua arte viene sia dall’Europa misterica e pagana, sia dalla Grecia antica, come pure dall’Oriente, attraversa l’Occidente cristiano con una intuizione metafisica e anche grazie alla visione ermetica che tu citi sovente; che impatto e che funzione potrà avere nell’arte e nella cultura anglosassone e, in particolare, americana, dove questa ricerca è meno storicizzata e maturata nella cultura?
MB - Il fatto della storicizzazione – che si declina in accadimenti – non ha molta rilevanza nella possibilità che l’arte venga espressa appieno. Credo che l’impatto dell’arte sia più sinceramente e veramente metafisico, che non avvenga in un percorso storico; infatti quando cerchiamo cos’è l’origine della creazione – non della creatività che è un fenomeno limitato – ci accorgiamo che per entrare in una possibile comprensione dell’origine dell’universo si entra in uno spazio e in un tempo in cui le regole non sono più così “scontate”; e così passando dalla fisica classica a quella quantistica, per concepire l’origine dell’universo finiamo per concepire un buco nero, dove le regole cambiano del tutto e sembrano impazzire. L’America come luogo, come mito e come contenitore di culture altre e varie, l’America come specificità in sé - dovuta proprio alla contenzione in un luogo di tali diversità - quando può assumere un sincero interesse verso i propri fondamenti crea in quel momento una relazione con l’arte e con la mia arte che ricerca l’origine. Del resto la meraviglia del rinascimento italiano ed europeo aveva questo stesso principio di diversità e specificità rivoluzionaria che, al tempo, fece una differenza, che continua anche oggi che la studiamo stupiti.
Ma l’unica, possibile approssimazione reale a questa intuizione rivoluzionaria, quindi, è l’avvicinarci a questa domanda di fondo sull’origine, in qualunque modo venga chiesta, il che cambierà a seconda dei tempi e delle culture. Se andiamo indietro possiamo accorgerci di momenti topici nella storia - e solo di quelli che conosciamo - dai quali riceviamo una grande ispirazione, per esempio l’Antica Grecia, la Tradizione Egiziana, che entrambe furono uno spunto cruciale per l’ermetismo che ne seguì e per il rinascimento fiorentino. Voi, come alchimisti, sapente benissimo di cosa parlo, è il rapporto fra micro-cosmo e macro-cosmo; tutte queste sono diverse visioni epocali che rincorrono l’origine che certamente verrà presagita dai più, intuita da molti e realizzata completamente da pochi individui.
LA - La frase “si sedes non is” l’hai presa dalla Porta Ermetica, giusto?
MB - Sì, volevamo dare un nome a un movimento artistico e abbiamo voluto collegarci alla Porta Ermetica di Roma. Peraltro ci trovavamo nelle vicinanze di Piazza Vittorio dove è sita, e simbolicamente volevamo creare una seduta, una seggiola o una panchina sott'acqua, sul fondo di una piscina. Fui ispirato da un discorso di Ibn Arabi1, Maestro Sufi antico, e volli rappresentare in qualche modo la posizione del corpo che lui ricostruì come immagine evocativa di un dinamismo immobile: quello di un uomo che si sta per alzare, mentre sta salutando ed è in procinto di partire. Ma ancora non si è alzato, eppure sta per farlo… Ed è che l’intenzione è tutto per quanto sia piccolo l’impulso al gesto del partire.
LA - Quando mettesti il mercurio nella buca della Fortezza da Basso, che va a rispecchiare la cima della mongolfiera o il tuo volto, non hai considerato, invece, di mettervi uno specchio?
MB - È che il Mercurio lo conoscevo già perché lo avevo giù usato. Io ho una provenienza da chimico, non ho fatto né una scuola, né un’università d’arte. Quindi è stato un affioramento della chimica, una materia che studiai a lungo, quindi certamente anche dell’alchimia, nel momento in cui stiamo facendo un’intervista per NitroGeno e proprio perché sto parlando a te.
LA - La parabola che spesso tu proponi come opera d’arte, mi pare superare l’alchimia in quanto disciplina o techné, andando addirittura sulla questione dell’identità, sull’Io Sono. Nel momento in cui ci avviciniamo sempre più a uno specchio parabolico concavo, la nostra immagine vi viene assorbita e vi scompare.
MB - La parabola, lo specchio concavo, mi ha travolto. All’inizio lo tenevo nel palmo della mano notandone l’evocazione luminosa, era un contenitore di luce. Ma poi, un giorno, soprattutto allargandone le dimensioni mi accorsi di altro; ne rimasi scioccato, tramortito, quando l’immagine di tutto me stesso vi scomparve dentro. Nel momento in cui l’occhio coincide con il fuoco della curvatura della parabola in un solo punto, l'immagine scompare e dal quel punto in poi ciò che è riflesso capovolto risulta riflesso diritto e non più rovesciato. Quel momento di passaggio è sconvolgente, è come se con uno specchio concavo avessimo un’illuminazione a portata di mano e riproducibile in ogni istante, una sorta di meditazione portatile.
La circonferenza anche in questo mi pare magica, paradossale, insostenibile: Qui il centro scompare insieme all' immagine e la visione lo accerchia! Forse che ibn Arabi – e Guenon che lo cita - non abbiano ragione? E quindi – così - Ermete, i Padri della Chiesa, ma anche Blaise Pascal.
LA - Quale è la connessione fra una sensibilità artistica e filosofica come la tua e la comprensione della realtà derivante dall’esperienza alchemica?
MB - Ho studiato all’Università il pensiero di Galileo Galilei, ma l’ho fatto all’interno della filosofia della scienza, mentre più niente riusciva a soddisfarmi davvero. Anzi trovavo che la ricerca scientifica sempre più portasse via dalla propria essenza l’essere umano. Nonostante ogni possibile scoperta scientifica l’uomo rimaneva sempre uguale, non importa quanto grandi fossero le implicazioni di ciò che scopriva e vedeva. non cambiava dunque, così, il materiale umano.
Allora mi sembrò – e ancora lo penso - che senza abbandonare la cultura attuale, sulla base dell’importanza che la scienza ha oggi, si possa con l’arte, toccare questa essenza profonda dell’uomo. E mia, ovviamente.
L’uomo con il suo ingegno libera i mondi del proprio peso occupandosi, in realtà, soltanto d’una piccola parte della dimensione totale dell’essere… Ora, questa è la domanda che voglio porre… È proprio attraverso quel mistero che è l’ingegno, in ogni sua forma possibile, che l’uomo può partecipare a una vero cambiamento della sua struttura fisica e mentale?