Pensare Green, ovvero, se sei paranoico, non lo sei ancora abbastanza Fontana Editore

Pensare Green, ovvero, se sei paranoico, non lo sei ancora abbastanza

Marco Bertone
Pensare Green, ovvero, se sei paranoico, non lo sei ancora abbastanza

Viaggiavo. In automobile, quando facevo il lavoro vero (quello pagato tutti i mesi, intendo più provvigioni). Ogni tanto scorgevo dal finestrino case lasciate a metà, e strani cartelloni pubblicitari, e scoprivo che la campagna ha gli stessi sogni della città,

le stesse ferramenta, gli stessi sexy-shop, le stesse cartomanti, le stesse merendine con le mamme che sorridono, le stesse insegne di GPL per auto, Finanziamenti Convenienti Tasso Moltobasso, Funerali Classici Riguardosi (con tutto l’armamentario di gabbiani che volano, libri che si aprono, niente formaldeide) e Discrete Investigazioni Coniugali (niente Tom Ponzi, non più, solo grande efficienza tecnologica e riservatezza). Ma la cosa che mi affascina sono i centri commerciali nella campagna, che siano le Langhe o l’Abruzzo. Simili a navi alla deriva, come beoni assetati dinanzi alle slot machines del Bingo Palace, vedo milioni di famiglie accalcarsi per un vestito o un telefono cellulare, mentre bambini obesi sbrodolano il gelato, escalator muzak a palla, un virgulto di suono da sushi bar più che realmente esotico, impercettibilmente fastidioso come un Vivaldi in formato MIDI, sprigionato sul Grande Ipercentro Shopping Outlet di Vattelapesca… nei pressi di qualche rotatoria stradale che si manifesta con il suo corredo di tini della cantina sociale del paesello, o attrezzi agricoli di un lavoro orgoglioso, o versioni in marmo grigio di una Stonehenge stilizzata, se lo scultore locale ha avuto il plauso di un assessore pietoso. Così, fra campi di girasole arsi dal sole, per un attimo qualche struttura in mezzo alla carreggiata mi si impone come fosse la mia Statua della Libertà, la mia Pietà, il mio David, maestosa come il monumento di Manuela Arcuri a Porto Cesareo o il fiero campeggiare di Prezzemolo a Gardaland.

Questa è la mia Italia, il luogo che ha saputo far da culla alla maxitangente Montedison e ai Musei Capitolini, sotto il sole cocente che splende sui templi di Pompei come sulla bretella del Grande Raccordo Anulare, località in cui posso vedere fontane del Bernini e audaci speculazioni edilizie sul bagnasciuga. Luogo di contraddizioni come me.

Ed è qui che, in un misto di stupore e malinconia, vedo cosa vuol dire essere alla periferia dell’Impero, immaginando che un giorno tutto questo possa esplodere, o essere invaso, o semplicemente dissolversi nelle polveri del tempo. La paura della devastazione è un tratto della paranoia da complotto. È bello essere vivi, ma non lo è se sai che qualcuno ti osserva, o ti toglie l’aria, che siano il governo con le sue tasse, i grigi da Zeta Reticuli che vogliono cibarsi di noi e magari rapirci, i terroristi che sparano nel mucchio.

Trattare della crisi che viviamo da qualche decennio significa spingersi affaticati sul terreno della più inconsistente retorica ecologista a meno che non si voglia chiarire per bene la natura base della crisi.

A tratti, si analizza una singola porzione della nostra fatica: definiamo una crisi di valori, o una crisi sociale, una crisi economica, una crisi politica dovuta alle classi dirigenti che non fanno quello che vorremmo o che magari non sappiamo neanche.

Ma la crisi vera, include tutto questo perché invece di essere una causa è una risultante di un modello di sviluppo la cui individuazione come problema principale non è solamente lo scopo delle analisi, ma già la terapia.

Una data che mi rimarrà impressa è il 23 maggio 2007, quando per la prima volta da quando l’Homo Sapiens ne ha memoria, la percentuale dei cittadini mondiali ha superato quella dei campagnoli, perché mi sembra che il futuro possa essere una enorme banlieue, anche se Zurigo o Copenhagen rimarranno sempre inarrivabili nelle classifiche delle città più in per Monocle e se tenteranno di far di questo posto una smart city de noantri.

Il mondo è sufficientemente bello da indurre una struggente malinconia e così brutto da farti desiderare di chiudere gli occhi come facevi da bambino e auspicare che una volta riaperti magicamente il male non ci sia più. Ma poi sai con la razionalità delirante lucida dell’adulto che è tutto vero.

La fine del mio mondo, non furono le Torri Gemelle o quando morì qualcuno di caro, né quando la mia squadra retrocesse in Serie B, ma quando a nove anni vidi una copertina di un noto rotocalco che illustrava cosa sarebbe stato il mondo a causa della desertificazione. Erano gli anni della crisi energetica, delle domeniche senza auto, della consapevolezza ecologica.

Mi inquietò quella illustrazione. Neanche Hyeronimus Bosch o Yves Tanguy avrebbero costruito un panorama di così spettrale desolazione. Ogni gioia assaporata dopo di allora mi è sembrata un modo per allontanare l’entropia di quella spaventevole calamità, e ogni personale catastrofe (amori finiti, licenziamenti, commesse di lavoro perse, lutti, incidenti, malattie gravi di parenti e amici) un addentellato di quella dimensione paurosa, presagio di un baratro totale che ci avrebbe inghiottiti, un gorgo in cui avrei forse incontrato divinità malvagie e aliene degne di un racconto di Lovecraft.

L’idea che il mondo potesse finire divenendo una landa desolata senza acqua e che in questo Gran Canyon infinito avremmo incontrato nostri simili sempre più smunti e cadaverici si è nutrito di volta in volta di allarmi diffusi sulla fine delle risorse, sulle guerre per l’acqua, sui lamenti di Vandana Shiva, Luca Mercalli e di Rifkin, passando per le alchimie di una decrescita più o meno felice e per le amare considerazioni sul climate change, che presto finiscono a pagina 18 di un qualunque quotidiano, dopo i resoconti sui bambini della Famiglia Reale e le interviste ai cuochi di grido.

È la reazione, disastrosa ma comprensibile, dell’opinione pubblica, che preferisce sapere che tutto scorre normale piuttosto che angosciarsi per la crisi imminente. Tanto, continuiamo a dire, non possiamo farci niente. No, sarebbe troppo energeticamente dispendioso pensare un altro modo di produrre, di usare le risorse, di distribuirle e iniziare ad essere davvero, al di là dei vuoti proclami, green. Anche se questo vuol dire condannarci al declino, e poi all’estinzione, che possiamo sempre esorcizzare dando la colpa ai cattivoni di turni o all’ineluttabilità del capitalismo, tralaltro già mutato in qualcosa d’altro. Un’abile vignetta di Walt Kelly mostrava, su una discarica di rottami, l’arguto Pogo dire sconsolato all’amico Wally: “Abbiamo incontrato il nemico. Ed il nemico siamo noi”.

Per evitarci di scoprire tutto questo, danziamo sul Titanic, e chiediamo all’orchestrina fatta di politicanti e giornalisti di alzare il volume.

Comunque non so, e nessuno riesce a saperlo, se tutto quanto finirà con un’esplosione nucleare, o con un susseguirsi inesausto di cataclismi casuali, mentre atti sediziosi della Natura matrigna, sempre che esista, sommergeranno le guglie dei grattacieli o con la potente distruzione dell’ordine provvisoriamente chiamato “civiltà dei consumi” (un ossimoro). In un futuro remoto, ben oltre la razza umana che avrà solcato per qualche tempo un oscuro pianetucolo marginale come la Terra, inghiottite dal profondo Erebo, persino le galassie saranno aspirate da buchi neri di insondabile e rauco splendore neghittoso. Le glorie e le conquiste dei nostri così poco assennati capintesta saranno solo fogli di almanacco ingialliti e poi dispersi in una impassibile polvere nel vento che, anche esso, sparirà senza anima viva che se ne rammenti. Alla fine del tempo, neanche lo scarafaggio scampato alla bomba che decimerà le vanitose città erette dalle nostre civiltà avrà vinto. Solo quella illusoria dimensione che chiamiamo Tempo, che a sua volta smetterà di esistere con il collasso finale di un universo. E io e voi molto prima. Voglio che si sappia che tutto questo è in qualche misura rassicurante per chi, come me, è nato in un altro secolo. Non per i giovani, comunque. Ma d’altronde, hanno sempre perso, vittime dell’inconsistente ma pesante idea delle generazioni passate che esiste solo l’oggi e non il futuro delle persone che dovranno sorbirsi i nostri patetici errori antiecologici.

Marco Bertone

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