Sviluppo spirituale teurgia magia nel BON tibetano Fontana Editore

Sviluppo spirituale teurgia magia nel BON tibetano

Leonardo Anfolsi

Quanto qua scrivo sul BON tibetano lo dedico a tutti i veri ricercatori, e lo voglio scrivere in modo che sia comprensibile ai più. Quindi chiedo venia a tutti i miei amici tibetologi, che capiranno le approssimazioni necessarie a snellire un simile discorso.

Pensa un mondo distante dove - nel bene e nel male - lo sviluppo spirituale e la teurgia / magia sono al centro della cultura. Nel mondo tibetano arrivano due apporti fondamentali che si espanderanno poi verso Cina, Corea, Vietnam, Giappone (non viceversa siamo spiacenti): questi due apporti provennero dall'India e... udite udite... dallo Shangshung ovvero, mediatamente, dagli ultimi confini culturali del Tazig, ovvero della antica Persia.

Contestualizzo ad uso dei soliti occultisti nostrani che non aprono mai un libro. I nostri amici occultisti sanno cosa dicono gli angioletti, e conoscono tutte le voci di corridoio, ma non questa, perché l'ho "assemblata" io. Preambolo: notoriamente Gurdjeff inventava neologismi in forma di toponimi, di concetti esotericizzanti di nomi, eccetera. Questa è una vera primizia: dalla parola Shangshung si origina - sommandovi la parola persiana SIMURG - il famoso "SARMUNG", in quel tipico gioco di parole dell'avventuriero e iniziato Gurdjeff. Ve lo ricordate? Quello dell'organo kundabuffer... :-)

Ora. Nonostante la Cina abbia goduto assai nel distruggere più monasteri tibetani e biblioteche possibile ancora si conservano e ancora si scoprono antichi testi provenienti da quella antichissima cultura, alcuni dei quali sono conservati anche in università cinesi, senza aggiungere i famosi rotoli di Dunhuang. Uno di questi testi tramandati da millenni, lo Ziji, è stato tradotto e commentato dall'ottimo erudito e maestro Namkhai Norbu e curato dall'eccellente Adriano Clemente.

È uno scrigno che ci mostra una realtà parallela dove la teurgia è alla base di tutto, e dove re e signori cercano l'aiuto di eremiti e maghi, come da noi si narra solo nel "Lord of the Rings", che è invece una favola.
Qua invece siamo nella storia di civiltà sepolte, e non serve la polvere del tempo, delle galassie o dei racconti per conservarla no, perché qua "Gandalf" è un personaggio storico, ha nome e cognome, ed è narrato cosa ha fatto e perché ha vinto qualche legge di "natura".

Il testo racconta in modo molto ordinato tutta la "scienza interattiva" di quel mondo antichissimo.

Rituali collettivi o individuali per ottenere precisi risultati, le configurazioni matematiche alla base dei calcoli astronomici, quali classi di esseri popolano realtà parallele e quante queste sono, cosa fanno, come possono interagire con il nostro mondo, cosa si aspettano da noi, quali danni o benefici possono arrecarci. Se Biglino avesse letto questo testo - o se lo avessero letto i suoi seguaci - credo che tutta questa storia della paleoastronautica sarebbe già finita da un bel po'.

Come nel nostro mondo contemporaneo alla deriva si usa guardare dentro ad un microscopio per vedervi delle macchie che individueremo, secondo il nostro sistema immaginifico/oggettivizzante come “virus” o “batteri”, in quel mondo appaiono nel caleidoscopio della visione ordinatrice - sempre immaginifico/oggetivizzante anch’essa - divinità, demoni, messaggeri, guardiani. Tutti perfettamente funzionanti e funzionali a tale caleidoscopio condiviso, aventi quindi la capacità di interagire con gli umani, guarendoli, ammalandoli, arricchendoli, inquisendoli, proteggendoli.

Il BON è la religione prebuddhista del Tibet e viene ab antico dalla Persia. L'antico regno dello Shangshung aveva la propria capitale attorno al Monte Kailash - montagna sacra a quattro religioni e dalla quale si dipartono quattro fiumi nell'auspicale forma di swastika. Swastika, grifone (Khyung = Garuda) e SoleLuna sono tre simboli centrali in questa antichissima cultura che ha molti lati ancora ignoti con relative psico-tecnologie ancora non decifrate.
Ma l'essenziale ci è giunto e mi è giunto.

Ebbi la fortuna di ricevere insegnamenti eccezionalmente utili dai maestri discendenti da questi antichissimi lignaggi, e grazie a ciò, da ragazzo, potei sviluppare alcune mie qualità che, altrimenti, data la mia pigrizia, mai avrebbero preso forma. Ma il mio interesse è rimasto sempre all’interno della più intensiva pratica zen. Come mai? Lo seppi quando capii che i bon stessi praticavano qualcosa non solo del tutto simile, ma in effetti, allora, perfettamente identico, come ci fece sapere il maestro tibetano dzogchen longchenpa, che citò i maestri Hanshan Moeyan, ovvero gli Oshang mahyana cinesi, che erano i maestri zen della Cina attorno alla fine dell’VIII secolo quando vennero in Tibet stabilendosi a Samye, dove quindi discussero inutilmente cogli incapaci filosofi tibetani.

Da parte sua il quinto patriarca dello zen cinese lasciò scritto che la meditazione zen che lui insegnava fosse in realtà una pratica che - ora sappiamo - del tutto identica a una fra le più note dello dzogchen bonpo e buddhista tibetano. Mi interrogai al riguardo, senza risolvere il dubbio, grattandomi la testa assieme al prof. Harrison, a Stanford, pochi anni fa.

Chi è interessato allo sciamanesimo dovrebbe certamente studiare e attualizzare più che può l'insegnamento che pulsava nello Shangshung, proveniente dal primo maestro umano a noi noto, Shenrab Miwoche. Bon e buddhismo, infatti, prima che lanciare i ricercatori nei rarefatti reami della magia, dai quali ne tornano uno sano e mille acciaccati, insegnano come radicarsi nella consapevolezza, e come diventare esseri umani decenti, se non ancora meglio.
Non è una cosa preziosa in un tempo dove milioni di esseri umani - ipnotizzati davanti alla TV - vengono considerati alla stregua di bestiame dalle multinazionali, e dove chi reagisce di fronte a questa follia viene preso per complottista?
Alla fine, all’inizio, si tratta solo di sedersi in meditazione senza distrazioni e senza trovare scuse.

Ricordo che un giorno, a un passo dall'Himalaya, incontrai un giovane tulku dell'antica religione bon, sorridente d'estasi eppure sofferente di una malattia inguaribile; mi guardava con gli occhi d’una madre. L'abate, Lungtok Tempai Gnyma, volle che lo visitassi - capii più tardi - per farmi rendere conto di che cosa fosse davvero quel potere che tutti cercano, quella beatitudine che vince il dolore che sarebbe più atroce. Il giovane tulku conversò con me facendosi tradurre ma le sue parole mi furono così cristalline che riuscì quasi a capire quanto mi disse in un tibetano impalpabile, senza inflessioni dialettali.

Siccome ero riuscito ad aiutare nella guarigione - con l’aiuto del cielo - un altro lama di alto lignaggio, lui lasciò illudermi di poter riuscire anche nel suo caso. Ma mi risultava chiaro il fatto di essere entrato nel suo gioco sconfinato fatto di quel deserto di innumerevoli pietre dove il vento taglia il viso. Eppure quella solitudine in alta quota è un abisso splendente.
Perché “profondo” e “vero” non può voler dire “ridente” e “gioioso”?

L’abate mi fece toccare con mano le reliquie di maestri che del loro corpo lasciarono solo capelli, unghie e perle iridescenti, svanendo in arcobaleno, sovente sotto gli occhi dei molti testimoni convenuti. E mi benedisse facendomi toccare con la mente quelle antiche presenze di benevoli maestri che abitano questi luoghi, questo dopo che ebbi ricevuto la trasmissione completa del loro sconfinato compendio yoghico-metodologico, La trasmissione dello Shangshung. Infine ridacchiando, mi narrò precisamente cosa mi sarebbe capitato pochi giorni dopo. Per filo e per segno.

Filo e segno. I maestri bonpo intrecciano e segnano ritualmente i fili del destino.

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