Pensiero e desiderio. Parte 1

Pensiero e desiderio. Parte 1

Alessandro Rusticelli

1. Introduzione

Il pensiero è una forza generativa che permea ogni aspetto della nostra esistenza, sia a livello individuale che collettivo. Difatti è attraverso l’attività delle nostre menti che, fin dai primi anni di vita, modelliamo il mondo intorno a noi e diamo senso a quel che ci accade.

Non c’è dubbio che il pensiero sia un ente creatore, capace di dar vita a innovazioni che influenzano il corso della storia umana. Ci permette di visualizzare possibilità e realizzare progetti d’ogni sorta; senza di esso, le invenzioni rivoluzionarie, le opere d'arte e le teorie scientifiche che hanno trasformato il mondo non sarebbero mai state concepite.

Eppure il pensiero da solo non basta. Il processo creativo, infatti, ha bisogno di qualcosa che inneschi l’immaginazione, un’emozione che trasformi le fantasie in azioni, i sogni in realtà. Stiamo parlando del desiderio, la scintilla che accende il nostro pensare. Il rapporto dell’uomo col desiderio è sempre stato complicato. Venerato e temuto allo stesso tempo per la sua veemenza, è un elemento chiave della nostra psiche con cui tutti, prima o poi, dobbiamo fare i conti nel processo di crescita personale, un fatto su cui si è riflettuto per secoli sia in Occidente che in Oriente.

Nelle pagine che seguono ci occuperemo del modo in cui l’uomo ha fatto i conti con il pensiero desiderante, cercando di volta in volta di liberare oppure d’imbrigliare il suo immenso potere creativo.

2. Da Platone a Schopenhauer

La riflessione dell’Occidente sul desiderio prende avvio nel Simposio di Platone. Il filosofo ateniese, nel mito di Aristofane, racconta che gli uomini in origine erano esseri con due facce, quattro gambe e altrettante braccia. La loro potenza li rese superbi spingendoli a scalare l’Olimpo, perciò Zeus decise di punirli tagliandoli a metà.

Così divisi gli uomini s’indebolirono e furono condannati al destino di anelare continuamente alla loro unità perduta, desiderando ciò che non potevano più avere. Per Platone, quindi, il desiderio in tutte le sue forme si fonda sulla mancanza. Chi desidera immagina sempre qualcosa che è assente, rimanendo intrappolato da qualche parte tra la perdita passata e l’assenza futura. Il desiderare di Platone ha un che di tragico e si manifesta come una forza che si ripiega su sé stessa. Ciò non di meno quest’idea ha influenzato gran parte della riflessione occidentale sul tema, dall’antichità fino ai giorni nostri.

Se queste sono le premesse, non stupisce il fatto che, secoli dopo, Agostino d’Ippona abbia definito il desiderare come una fonte di perenne miseria. A dire il vero Agostino fa un’analisi accurata del desiderio, degna delle moderne scienze della mente. Egli ci rammenta, infatti, che il desiderio cresce continuamente: più lo si nutre, concedendogli ciò che vuole, più diventa imponente. E naturalmente quanto più sono grandi le nostre voglie, tanto più siamo insoddisfatti, irrequieti e ansiosi.

Le parole di Agostino fanno eco ad un’analisi del pensiero desiderante che si ritrova anche nel mondo asiatico, in particolare nel concetto di tanha (la brama), che il Buddismo considera all’origine della sofferenza umana.

Avremo modo di tornare su questo interessante argomento più avanti.

La concezione del desiderio come mancanza trova terreno fertile in Europa e cresce col passar del tempo. Nel XVII secolo, per esempio, Locke e Spinoza dipingono il desiderio come un vero e proprio disagio dell’anima, la causa di pensieri che sono costretti a ruotare attorno al fantasma di quel che non si può possedere, senza riuscire mai a raggiungere alcunché. Per loro il desiderio avvelena il pensiero, che è produttivo soltanto quando è guidato dalla ragione.

Con Schopenhauer la riflessione sul desiderio si complica ulteriormente: il pensatore tedesco afferma che la mente filtra la realtà attraverso categorie a priori che ci restituiscono una visione ingannevole della vita. Il fenomeno non è altro che una mera apparenza che esiste unicamente nella nostra mente e non costituisce la verità. Per il filoso di Danzica “il mondo è una rappresentazione” e la vita altro non è che un “sogno”.

Al di là delle apparenze ciò che regola l’esistenza è la cieca volontà di vivere, un impulso impersonale e impellente a cui nessuno può resistere. Esso non appartiene unicamente all’uomo, ma è proprio di ogni creatura; in quanto tale è il noumeno, l’essenza dell’intera realtà.

La tesi di Schopenhauer è che gli esseri viventi non agiscono per nessuno scopo preciso, non c’è senso nelle loro azioni se non il volere per il volere, il vivere per il vivere.

In ultima analisi Schopenhauer costruisce una metafisica del desiderio: per lui volere significa desiderare e il desiderio non è altro che mancanza, bisogno e dolore. “Nessun oggetto del volere - dice - una volta conseguito, può dare appagamento durevole, bensì rassomiglia soltanto all’elemosina, che gettata al mendico prolunga oggi la sua vita per continuare domani il suo tormento”. Il pessimismo del tedesco è un baratro senza fine e si dovrà attendere ancora del tempo perché al desiderio sia riconosciuto qualcosa che l’Occidente, al contrario del mondo orientale, ha per lungo tempo cercato di minimizzare: il potere creativo.

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