Alchimia di Paracelso radice di Omeopatia e Antroposofia – 1
La Medicina Alchemica non è solo la radice della iatrochimica moderna ma, dal punto di vista della storia delle medicine complementari o non-convenzionali, si può considerare come la madre di tutte queste.
Infatti Hahnemann sperimentò fra i primi farmaci omeopatici proprio le materie prime, i prodotti ed i sottoprodotti delle operazioni alchemiche e, mi si lasci dire, con una certa competenza: hepar sulfur, tartarum stibiatum o antimoniatum, antimonium tartaricum o antimonium crudum, cuprum vitriolatum eccetera.
Quest’argomento è composito e richiede pazienza nel considerare le sostanze, le loro particolarità, la loro velenosità relativa, le dosi e come queste vengono concepite, e poi i loro effetti, siano essi sull’agente patogeno e il quadro patologico, oppure sul sistema tutto o su di una funzione specifica. Peraltro laddove l’Omeopatia post-hahnemanniana si è voluta sperimentare – mi vengono in mente gli studi di Boericke, Nash e Reckeweg sui veleni di vari serpenti – ci si accorge che non ci può essere una teoria generale chiamata “avvelenamento secondo gli omeopati”: infatti le dinamizzazioni omeopatiche usate per naja e lachesis, i veleni di cobra e crotalo, sono fra loro diversissime. Ovviamente quale che sia la dinamizzazione scelta, questa deve guarire non solo una patologia simile, ma in questa sperimentazione specifica anche il morso del serpente stesso, e in modo evidente, immediato, completo.
Paracelso, afferma che il veleno è una componente che può essere rimossa da un principio o da un composto, mentre altrove viene citato perché asserì che tutto può essere velenoso a seconda della quantità impiegata; il che, a ben vedere, non è una contraddizione. Proprio quest’ultima citazione paracelsiana inizia un breve trattato, scritto per l’agenzia governativa APAT, sulla ormesi.
In tutta onestà e correttezza le autrici del documento suddetto ci rendono noto il problema del dogma: qualora dovessimo impostare una ricerca più generale sulla questione dosaggio, sussiste un dogma che ha a lungo scoraggiato una ricerca a pieno campo sull’argomento. Ovviamente il convitato di pietra è sempre lei, l’Omeopatia, come lo sarà la cosiddetta memoria dell’acqua.
Traducendo per i non addetti, l’ormesi si occupa di presenza di sostanze in qualunque tipo di organismo, sia esso un ecosistema, il pianeta, l’essere umano, un tessuto ma, anche, l’ormesi riguarda un certo tipo di risposta allo stimolo dato da una sostanza, la quale risposta si rileva in due fasi: “Le risposte ormetiche, in genere, mostrano una modesta stimolazione alle basse dosi (…) e un’inibizione alle alte dosi. Perciò, affinché sia soddisfatta la definizione “qualitativa” dell’ormesi, devono necessariamente essere presenti tanto la dimensione stimolatoria quanto quella inibitoria".
Prendo dal testo citato questa grafica. I modelli dose-risposta sono: lineare, “a soglia” e ormetico.
Il modello “a soglia” e quello ormetico hanno in comune la risposta ad alte dosi, mentre, a basse dosi, l’effetto ormetico dovrebbe causare l’effetto opposto e non proporzionale a quello osservato ad alte dosi. Questi principi sono considerati in linea teorica ma immediatamente applicabili alla sperimentazione per risolvere questioni di dosi e sinergie, ma anche implicano il tema suddetto; ecco nella nota sottostante i particolari degli studi attuati per l'agenzia governativa APAT[1].
Vediamo come nella storia si sono incrociate le diverse medicine grazie ad una particolare sostanza che, da sempre, ha definito l’Alchimia: l’antimonio.
L’antimonio è sempre stato così importante nell’Alchimia da definire anticamente un altro prodotto della distillazione come una sorta di suo “derivato”: l’Alcol. L’Alcol non sarebbe altro che al+khol = l’+antimonio, essendo il khol notoriamente il pigmento nero che ne deriva il quale, reso in bhasma_ e oleolito, anneriva le ciglia e il bordo degli occhi; e pure chiamiamo ancora oggi collirio un preparato topico per gli occhi. Questo per dire, semplicemente, quanto era importante l’antimonio allora, al punto che un altro prodotto di laboratorio, l’alcol di alta gradazione, che un tempo era assai raro, finiva per prendere il suo nome.
È prassi comune a tutt’oggi nelle zone paludose del Kashmir l’uso repellente dell’antimonio, tutti se lo spalmano per annerire i bordi degli occhi, onde evitare che le zanzare forino gli occhi stessi, come anche in tutto il mondo pastorizio è usato similmente per evitare infezioni.
In Omeopatia, l’antimonium crudum, che è la stibina, ne è il sale inorganico, l’antimonium tartaricum ne è il sale organico.
Successivamente, nella farmacopea industriale, l’associazione dell’antimonio col potassio ha portato alla formulazione del tartaro emetico (tartrato di potassio e antimonio), mentre la sua associazione col sodio ha incoraggiato la produzione di sintesi delle fuadine.
E veniamo alla polvere emetica di Algarotti, e a quella di James. La prima fu un ossicloruro di antimonio che preparò mescolando e lasciando precipitare del burro d’antimonio in spirito di sale, chiamandola "pulvis angelicus"; la seconda fu una miscela di una parte di Ossido d’antimonio e due parti di calcio fosfato: ma è che sovente venivano contraffatte con della semplice polvere di stibina, anche per questo Paracelso s’arrabbiava così tanto, anche coi farmacisti.
E infatti, siccome l’antimonio sarebbe stibina che si trova in natura legato allo zolfo in quanto sesquiossido, ingerito polverizzato in minime dosi funziona, sì, da emetico, perché reagisce con l’acido cloridrico dei succhi gastrici: ma questi legano lo zolfo e perciò rendono l’antimonio puro molto attivo sulle pareti dello stomaco, producendo crampi e quindi il vomito. Se la quantità è minima gli effetti collaterali sono impercettibili, anzi, aumentano l’effetto emetico, ma se si esagera si hanno intossicazioni anche gravi. In Omeopatia, si ricerca con l’Antimonium Crudum, l’effetto che viene da quella identica sostanza ma dinamizzata secondo la metodologia insegnata da Hahnemann: riesce a guarire proprio quel tipo di crampo allo stomaco che deriverebbe dall’assunzione di troppo antimonio. E questo anche in un animale, cosa che dimostra l’infondatezza dell’opinione ostinata di molti, secondo la quale i farmaci omeopatici sarebbero dei placebo.
Com’è noto, in alcuni casi le sostanze omeopatiche, essendo dinamizzate, hanno l’effetto opposto delle stesse sostanze in dose ponderali, in altri casi hanno effetti assai simili. E mi permetto di ricordare che nell’omeopatia c’è un pericolo in genere poco noto: quando il sintomo è acuto o molto acuto e dobbiamo somministrare una qualche potenza di un rimedio, in particolare se ottenuto da una sostanza o pianta velenosa, ricordiamoci sempre di non somministrare una potenza superiore (es. 30ch) e poi una inferiore (es. 4ch), cioè di NON tornare indietro coi “ch”, i “D” o i “K”, dato che in questo caso c’è il rischio di un peggioramento fulmineo che in qualche caso risulta essere inarrestabile. Esempio di questa possibilità è una appendicite che può diventare peritonite fulminante. Evitiamolo assolutamente, andiamo sempre in avanti, cioè aumentando i valori di dinamizzazione: visualizziamolo chiaramente.
Come si è detto, il principio della dinamizzazione omeopatica è stata da sempre osteggiata dal punto di vista allopatico che, forte della teoria di Avogadro, non contempla alcun fenomeno energetico, di bio-magnetismo o qualsivoglia risonanza, ma solo la possibilità di un benché minimo residuo ponderale di sostanza nell’eccipiente: quando si passa dalla dinamizzazione 3ch alla 4ch, non sarebbe più rilevabile alcuna traccia della sostanza attiva.
Per gli allopatici non ha alcun senso la dinamizzazione: per loro la sucussione di una sostanza attiva che venga agitata nell’eccipiente non comporta alcuna interazione con quello o potenziamento di questa, per la medicina convenzionale allopatica si tratta solo di “diluizione”; questo, in effetti, risulterebbe strano a chi fosse cosciente come fra le più innovative ricerche ci siano proprio quelle che riguardano un modello di dose/risposta “ormetico” - come si è appena detto[2] - cioè del tutto simile al funzionamento di molti rimedi omeopatici. Riporto, in tal senso, questa ricerca di uno staff italiano sull’effetto a livello mitocondriale di una dinamizzazione abbastanza alta di Gelsemium, un rimedio assai noto delle materie mediche omeopatiche[3]. La sperimentazione ha usato il rimedio suddetto alla 2 ch (corrispondente a una concentrazione di gelsemina di 6,5 × 10-9 M) andando a modificare significativamente l'espressione di 56 geni, di cui 49 si sono perciò ridotti e 7 si sono sovraespressi.
L’omeopatia ha sicuramente mutuato dall’Alchimia la dinamizzazione di una sostanza, mediante però il concetto che vi sta alla base, quello di energia. Chi ha esperienza di questo fattore, l’energia, sa bene che non ne esiste solo un livello, non si tratta soltanto di ciò che scorre e non ha forma tangibile; piuttosto i greci, coll’etimogenesi di questa parola, consideravano che “sorge dal di dentro”, captando così un fattore tipico del vivente, se non una concausa d’esso. Senza scendere troppo nei particolari basta ricordare come in Asia le due principali suddivisioni dell’energia riguardino uno scorrimento bio-magnetico nel corpo che si muove attraverso i meridiani e i punti segnalati dall’Agopuntura nella Medicina Cinese e, l’altra, l’energia emotivo-funzionale che accende sensazioni ed emozioni, ma anche muove le palpebre, fa parlare o respirare: un’energia chiamata prana che si lega a canali, cursori, chakra e anche al respiro, perciò al sistema nervoso oltre che a quello endocrino.
Quando si parla di energia esterna, allora, è proprio l’Occidente che ci viene in aiuto dicendoci che ogni cosa non solo è dotata di una differenza di potenziale - qualora siano dati una purché minima conduttività e due poli – ma che è anche dotata di frequenze, ovvero che ogni cosa è una frequenza. Con le implicazioni di questo fatto avremmo già una base per intendere una metafisica attiva, ovvero come un fattore di ordine “metafisico possa diventare fisico e rilevabile”, quale per esempio sarebbe la possibilità - sempre più incalzante - che l’acqua possa conservare traccia delle sostanze con le quali viene a contatto, o che il cielo fosse anche nella stanza.
In tal senso, in simili cambiamenti possibili della percezione che possano implicare un vero possibilismo scientifico - radicale quanto plausibile - fa testo tutto il percorso matematico che lo precederebbe, formule, algoritmi e stringhe, un impianto logico lineare in cui le sintesi non hanno balzi capaci di superare questa dialettica che oramai si è impostata in modo ideologico-giurisprudenziale. Poi, quando Bohr o Maxwell se ne vengono fuori con la loro metafisica, ci sembra di essere tornati alla Stoà di Atene, o ai tempi del Buddha e di Lao Tse, quando invece siamo nel dramma della scienza e dell’Occidente, dove c’è stato un cambiamento di Chiesa senza colpo ferire, dove il tema fondante non è la realtà ma, ancora, la Verità.
Tradotto nei termini di una storia dell’arte teatralmente rappresentata, è come se sullo sfondo di un quadro di caccia inglese del settecento, coi suoi toni scuri e in lontananza una volpe che fugge dai cani, il ruscello e la collina, da Leonardo a Man Ray, da Van Eyck e Picasso, tutti i pittori continuassero a esprimere la loro arte, ma solo su quello sfondo; Sopra lo sfondo di un paesaggio di caccia inglese ecco apparire la Gioconda, i Coniugi Arnolfini, Guernica, eccetera.
Mai un sobbalzo.
Ma oltre il problema di un impianto ideologico ecco che la sperimentazione scientifica risente dell’aspettativa di risultati precisi che abbiano l’avvallo di una teoria precedente e soprattutto di congrui finanziamenti.
Il fatto di come muti l’osservazione della realtà a seconda di come ne approcciamo i particolari nella nostra esperienza, sia a livello verbale che pre-verbale, non sembra interessare chi ha già la tessera vincente al partito positivista-riduzionista; quindi l’invadenza di una simile ideologia è considerata una sorta di inevitabile background culturale, anche se non ha alcuna giustificazione razionale ma è al contrario frutto di una mera reazione storica - uguale e neppure tanto contraria - all’impianto teologico della chiesa che la precedette.
L’invocazione di una verità salvifica mi sembra occupare molto spazio nella mente degli scientisti più ideologizzati, cioè più attaccati al concetto di “oggettività”, concetto assai ingombrante che è stato individuato da antropologi smaliziati come un postumo imbarazzante del concetto di “onnipotenza divina”, ma reso perfino personale, oltre che ecclesiastico, in quanto detenuto e conferito solo dalla casta dei detentori della verità attuale ai singoli esponenti di spicco. Gli altri si sentono semplicemente onorati di appartenere alla grande-famiglia-di-coloro-che-stanno-dalla-parte-dei-bottoni e non si accorgono dello svuotamento interiore – non solo semantico - a cui partecipano entusiasticamente.
Tale attitudine viene evidente di fronte al problema annoso della vaccinazioni coatte, idea accorpata indissolubilmente al principio salvifico dell’immunità di gregge, opinioni che sembrano a costoro incontrovertibili, ma sulle quali – comicamente e drammaticamente – scende invece la colomba bianca delle scelte economico-politiche, evidentemente molto più “oggettive” di quelle scientifiche.
La funzione salvifica del Agnus Dei, con la sua carica apotropaica viene spalmata – come in ogni guerra e peste che si rispetti – su tutta la popolazione come un inevitabile sacramento.
Una distinzione importante rispetto l’Omeopatia, è che in Alchimia non servirebbe in genere dinamizzare una sostanza con successive sucussioni, dato che i farmaci alchemici, per dirla in termini omeopatici, si assumono alla 1 ch. circa, il che significa da una a sette gocce diluite in un bicchiere d’acqua, di vino, se non in una tazza di brodo o di apposita tisana, a seconda dei casi.
Da sempre, per l’Alchimista, per guarire un malato è fondamentale infondergli forza: la contestazione di Leonardo Fioravanti alla mania del salasso tipica dei medici del suo tempo non è solo ragionevole, ma ben circostanziata. Avendo viaggiato al seguito di principi e nobili spagnoli, ci fa presente che nell’Africa mediterranea vi sono specialisti del salasso che scelgono punti precisi, fasi lunari e ore del giorno, e tipo di intervento a seconda dei sintomi, del quadro generale e della complessione umorale del paziente. E aggiunge che l’unico salasso polivalente, sarebbe quello ottenuto con poca fuoriuscita di sangue da sotto la lingua, vicino all’orifizio della saliva, fino a che escano dei filamenti. Probabilmente gli stessi medici scalzi flebotomisti che vide coi suoi occhi il Fioravanti, sono stati poco tempo fa incontrati da antropologi francesi che facevano ricerca sui monti dell’Atlante.
Fu Johann Gottfried Rademacher (1772-1850), un contemporaneo di Hahnemann, il padre dell’Omeopatia, a connettere la nuova medicina Omeopatica all’Alchimia: pubblicò un libro di ben 1600 pagine, Erfahrungsheillehre (cioè la Pratica Empirica della Medicina) nel 1841. Parallelamente all’Omeopatia nacque dunque una nuova scienza che Rademacher non volle palesare come Alchimia ma come Organopatia: possiamo dire che questa nuova scienza volle aderire più ad una sintomatologia empirica che ad una similitudine tossicologica com’è per l’Omeopatia. Il sottotitolo del suo testo aggiunge “Giustificazione della pratica empirica della Medicina degli Antichi Medici Alchimisti, malgiudicata… ecc” dato che Rademacher si impegnò sul campo per venticinque anni, osservando la precisione delle teorie di Paracelso e dei risultati ottenuti dai suoi arcana e da quelli proposti dai suoi discendenti, adattati a luogo e stagione. La teoria paracelsiana riguardante gli organi e la loro connessione col tutto, collega indissolubilmente l’opera di Rademacher all’altro celebre Paracelsiano europeo del tempo, Cesare Mattei (1809-1896). Siccome molti dei preparati di Rademacher furono poi sperimentati clinicamente dai medici omeopatici ed accettati nelle loro materie mediche, o ebbero sperimentazioni e usi omeopatici grazie a James Compton Burnett (1840-1901), possiamo ben dire che Rademacher fu il padre della Medicina Alchemica tedesca contemporanea, mentre Burnett sarà uno dei principali traghettatori dell’Omeopatia nel nuovo secolo.
Un altro contemporaneo di Hahnemann fu Goethe che, con grande intuizione, fu situato, da Von Bernus, agli albori di una nuova, seppur tradizionale, concezione paneuropea ed iniziatica della scienza e della medicina; della stessa opinione fu anche Steiner, a cui va il merito di avere incarnato, con Formisano/Kremmerz, col Mattei e con altri Adepti europei, la realtà di una Dinastia Alchemica destinata a regnare con l’uso di sali speciali.
La realtà esterna/essoterica relativa a questa “profezia” di Paracelso prendeva una forma dinastica ed una industriale: la forma di regnanti Alchimisti quali Cristina di Svezia e Francesco I de Medici, di re illuminati quali furono Ferdinando III, Cosimo I e Lorenzo de Medici, e quindi prese anche la forma di grandi industrie chimiche e farmaceutiche alla perenne ricerca di nuove molecole da brevettare. Come dire, una ulteriore e finale forma essoterica dei salia citati nella profezia paracelsiana come la commentarono Van Helmont e Glauber.
È inevitabile che ci siano medicine per le masse – inevitabilmente manipolative quanto a pronto uso - e medicine per chi capisce la guarigione – che lo interrogano su quanto vive e come. Del resto, solo gli ingenui credono in una età dell’oro, mentre chi è più saggio vi intravede un mito utile per educare a visualizzare il bene inaspettato che, comunque, la vita può darci se bussiamo alacremente alla sua porta.
Ogni giorno, però.
Leonardo Anfolsi
Note:
[1] - http://www.isprambiente.gov.it/contentfiles/00003600/3694-miscellanea-2006-07.pdf/
[2] - ibidem
[3] - https://bmccomplementalternmed.biomedcentral.com/articles/10.1186/1472-6882-14-104