Prefazione, ovvero Calcio d’inizio!
Leonardo Anfolsi Reiyo Ekai introduce "L'OVALE ALCHEMICO" di Corto Monzese:
Noi abbiamo bisogno di gioire e di ridere seriamente con la nostra vita.
La differenza fra l’esistenza di un corpo anatomico e la Vita Reale non può che determinarsi proprio dentro il pacchetto di mischia o comunque in azioni vive.
Certe cose non succedono dal tabaccaio...
Ci serve a tutti, dunque, un momento topico.
E poi?
Appunto.
Magari QUELLA COSA chiamata Illuminazione (Satori) o anche già un semplice Kensho momentaneo può accadere anche dal tabaccaio, ma le prime volte è solo nei momenti di eroismo che QUELLA COSA succede.
E ci vuole un eroismo continuato, forsennato, aggravato.
Si fa accadere qualcosa all’uomo che crea l’occasione a che QUELLA COSA succeda davvero. Si ritorna Ciò che si è davvero.
Poi ti accorgi che ti succede anche quando respiri davvero. Cammini davvero. Fai l’amore davvero. Lavori davvero. Guidi davvero. Ami davvero.
Allora è la Vita Reale, non è avanspettacolo spirituale a pagamento.
Qualche materialista crede che tutto ciò sia ovvio e solo fantasioso, una mistica fantasmagoria dovuta a una sovreccitazione dell’ipotalamo o dell’amigdala, ma non è così. Ci dispiace.
Davvero l’universo si capovolge e ritorna a essere ciò che davvero è.
Lo presentivamo da sempre.
Da un tempo senza inizio.
Ma ora lo vediamo.
E poi, in molti credono che ridere in modo iniziatico sia una sorta di “mandare in vacca tutto” e si sbagliano in modo drammatico.
Come fai a spiegargli che le più grossolane panzane vengono proprio dall’abbassare l’uva al livello della fatidica volpe o a spiegare l’inghippo al famoso asino di Buridano?
Anche l’asino, la questione, deve risolversela da sé.
E cosa dire della spada di Damocle o di quella di Brenno?
Quelle in genere prendono male a tutti, ma sono necessarie da capire e per capire; sempre.
Evitare per tutta la vita l’impegno spirituale è una grande sola.
Chi ci casca non farà mai quelle ricerche che gli sono tanto nel cuore, ma si fiderà del solito antiguru di turno. E così smettono di andare alla S. Messa o in Loggia, smettono di fare Meditazione, smettono di allenarsi con un Maestro valido, solo perché il solito ceffo d’avanguardia gli ammannisce il verbo della libertààààà: aveva ragione Zavattini a chiamarla così, eccome.
Mi fa piacere introdurre questo libro apparentemente poco rispettoso. Un monastero di Zen dovrebbe essere ben altra cosa da uno spogliatoio di una squadra di rugby anche se, inevitabilmente, un certo spirito di corpo, anche di corpo sudato, è essenziale anche fra chi medita intensivamente.
Tutti i veri praticanti di Meditazione che ho conosciuto non amano rappresentare le rarefatte regioni dello spirito, ma vibrano senza volere della presenza innata del testimone eterno. Non amano i minuetti e non stanno lì a contarsela, e ne ho conosciuti parecchi: sono allegri, divertenti, diretti. Vivi.
E in un istante ecco che in un loro sorriso o urlo tutto l’universo si rivela.
Quando noi siamo in Meditazione sappiano bene che da distanze stellari Maestri che non conosciamo, né di viso né di nome, stanno praticando con noi. Ed è così che siamo in milioni a pretendere di vedere il mondo così come è.
Questo libro è sincero anche se chiacchierone ed ha continui colpi di genio letterario. Quindi questo libro è un libro.
Qui, per via di un tentativo estremo, la forza è distinta dalla prevaricazione, il piacere dalla compulsione, perfino l’omosessualità dai suoi sottoprodotti più ingenui e inutili (che coraggio!), il coraggio per certo dall’insolenza, l’osare – grazie alle regole di gioco – dall’aggressività confusionaria.
Potrebbe essere un libro per introdurre “certi” argomenti in cui “G” non è un punto orgasmico e non “stands for God and Geometry” ma è un personaggio ineludibile dotato di baffi transcaucasici e che si pronuncia Gurdjieff: proprio a lui dobbiamo la pubblica declinazione in senso spirituale del verbo “pedalare”, qualcosa che in ogni generazione gli sprovveduti cercano di rimuovere nella speranza che ci possa essere una scappatoia per i più delicati.
Se vuoi, in questo libello anche l’aspetto massonico è presente, ma solo perché il lettore diventa un apprendista silenzioso oramai in balia della prolusione, della tavola e della chiusura dei lavori, perpetrati sempre dal medesimo Corto Monzese. Tre colpi di maglietto, tutti all’ordine, bla bla bla e poi a casa.
A riguardo dell’iconografia preferirei rifarmi ai primitivi, nel qual caso non citerei tanto Masaccio, come ha fatto Monzese, quanto piuttosto i cavernicoli. Il che sarebbe anche in tema con il rugby.
Tolto ciò, questo rimane un libro perfino raffinato e colto che va letto con attenzione oltre che con simpatia.
Il mio impegno d’insegnante di Meditazione mi porta, in Italia e negli USA, fra pensionati, veterans, imprenditori o studenti, comunque tutte persone che vogliono meditare per inzupparsi in questo vasto universo e dolcemente naufragarvi, ma anche per risolvere al volo tutti quei problemi pratici o relazionali, grazie al potere di penetrazione che ti regala una mente lucida e affilata.
Meditare fa non solo bene ma anche cura e mantiene vigorosi, saldi e intuitivi.
Colgo l’occasione per invitarti a cercare i miei siti e tutte le cose che ho pubblicato con gli editori Fontana, Venexia e con L’Ottava di Franco Battiato, ma anche di venire e partecipare agli incontri di meditazione che tengo ogni mese e ogni settimana.
A questo punto giunti, il lettore è costretto a sorbirsi la descrizione dell’unica vera e sentita partita di rugby che abbia mai giocato.
Premetto che fui un campioncino di corsa sui cento metri, tanto che volevano spedirmi al CONI per allenarmi per l’olimpiade di Mosca. Non ci volli andare quando mi spiegarono il motivo della rabbia di Mennea e cosa davvero diceva quando scalciando se ne andava, senza sonoro, durante le riprese dei telegiornali.
Allora giocai a baseball e divenni una giovane promessa dell’Amaro Montenegro, che fu al tempo la squadra campione d’Europa.
Finì anche quello; il vivaio italianamente si ruppe e i giovani abeti si seccarono senza un secondo pensiero da parte dei dirigenti.
E così qualche anno dopo mi ritrovai all’agraria di Bologna, con in classe due giocatori della nazionale juniores italiana di rugby, Girotti e Ogier: e mi costrinsero a giocare.
Ogier mi piantava addosso i suoi occhioni azzurri, sembrava dirmi “prendimi dai” mentre le gambette giravano a destra o a sinistra come fossero staccate dal corpo. E tu lì a fare nulla.
Dopo un paio di partitelle frustranti giocammo contro un’altra classe con il prof di ginnastica che fungeva da arbitro.
Ero un campioncino di baseball abituato a vincere. A quindici anni correvo incontro alle palle senza battere ciglio, le jack rabbit dure, non i pompelmi da softball; se uscivano dalla traiettoria per un falso rimbalzo era come prendersi un cazzotto da 100 o più Km orari su appena 3-4 cm2.
E fu allora che mi misero, non senza crudeltà, a marcare uno dei piloni.
Questi, enorme, andava dove voleva. Invece decisi che doveva sentirmi e che doveva cadere comunque.
E il prof era piegato in due dalle risate e rischiava di ingoiare il fischietto mentre fermavo il pachiderma buttandomi a tronco sulle sue gambe, lo prendevo a calci e a pedate o gli andavo di spinta coi tacchetti sui calcagni quando portava palla, alla Benetti. E poi il prof, essendo così divertito e stupito, era anche curioso di vedere come andava a finire.
Il pilone, poveretto, si rivolgeva bovinamente al prof/arbitro implorandolo “ma Prooof... Socciaaaa... Ma lui qui mi stianca! Proooof! Fischia bene, ouh!”.
Capisco che il povero pilone voleva mantenersi integro per la partita – quella vera - di domenica; infatti ogni lunedì la folla degli studenti – fra i quali erano molti rugbisti - appariva a tratti zoppicante per quell’eroico, inclito motivo.
E qui sospettai che ci fosse una comica vendetta da parte del prof, come dire “vai domenica a farti zacagnare e poi nelle partire della scuola mi fai la zia?”.
Ebbene, verso la fine della partita “amichevole” il marcantonio iniziò a rincorrermi oramai zoppicando, e la corsa continuò anche fuori dal campo mentre udivo il prof che continuava a ridere consigliandomi “Anfolsi! Corri, corri, di più, di più!”...
Sfuggito all’atletica, al baseball, quindi al rugby e poi all’alpinismo, finii soprattutto per meditare e per realizzare il “dis-port” che tutto precede, in fondo il vero, nobiliare significato di “sport” che doveva essere senza guadagno alcuno né motivo.
Ecco.
Intanto, il pilone continuando a correre ripeteva qualcosa, ma non avevo tempo di ascoltarlo. Era oramai visibilmente paonazzo per la fatica. Tagliai per le cavedagne, poi fra i campi. Infine ritornai all’istituto passando per la presidenza.
Stavo in campana perché il pilone era davvero tale, non un fermacarte.
Poi diventammo amici.
E anche questo credo faccia parte della partita di rugby che si gioca senza confini.
Leonardo Anfolsi Reiyo Ekai