Recensione: I fiori del silenzio di Harish Enrico Fontana Editore

Recensione: I fiori del silenzio di Harish Enrico

Michele Sist

La sensazione che ho avuto nel leggere I fiori del silenzio di Harish Enrico è stata quella di leggere un libro scritto.. da me. Lo so è pazzesco, ma ho provato davvero una sensazione strana, direi “familiare”, come del resto lo è Enrico che oramai lo considero un fratello di anima.

La mia stessa vita infatti, spesa in un lavoro di auto-indagine, si rispecchia alquanto fedelmente sui contenuti di questo magnifico libro. Potete immaginare di conseguenza il mio stato d’animo nel scriverne una recensione: paradossalmente le “cose” che già ci appartengono e che ci stanno particolarmente a cuore, finiscono a volte per essere le più difficili da esprimere proprio per il senso di grande importanza e di rigore che gli attribuiamo. In questo contesto, potrei definirlo come il senso di responsabilità che avverto nel tentativo di rendere giustizia ad un’opera che pur nella sua semplicità, reca in seno i “segreti” più intimi dell’esistenza e dalla quale sgorga il “nettare” più prezioso pronto per essere colto da quei “frutti” ormai maturi. Tuttavia scrivere su quest’opera di Harish Enrico è stato per me davvero un dono, un segno di riconoscenza verso la vita e l’esistenza stessa che in più di qualche occasione non ha esitato a riversare generosamente la sua grazia su di me.
Già, l’esistenza, o meglio il nostro “senso di essere”, la nostra “coscienza di esistere” da cui tutto - ma proprio tutto – sorge: quanti di noi si sono mai resi conto che proprio in essa risiede la “radice” e l’inizio e la fine di ogni cosa? Come si è formata questa nostra “identità”...se non da essa? Soprattutto, sono permanenti queste nostre “identificazioni”?

A questo punto credo sia necessario introdurre una breve premessa. Questa coscienza di esistere nasce a causa della dualità, della separazione originata dall’ Assoluto che prende - seppur illusoriamente - coscienza di esistere e che si concretizza con la nascita di un “io”; questo processo è in sé illusorio in quanto non può mai esserci “vera” separazione: l’Uno in quanto “Uno” è e sarà sempre tutto ciò che c’è e ci sarà, senza un “secondo”; la moltitudine è sempre inglobata nell’uno, per questo motivo l’ Assoluto (o Uno) pervade ogni cosa, all’infinito. Matematicamente parlando, l’Uno stesso contiene tutti i numeri, all’infinito: fondamentale è unicamente la sua sola presenza, che costituisce appunto l’origine.

Non potendo esistere altri che lui, quindi, l’ Assoluto per poter esprimersi deve “fingere” di creare un secondo, e lo fa attraverso il potere dell’illusione (Maya); questo potere frammenta l’Uno in una moltitudine di parti, ove ognuna di essa, per poter sostenere il “gioco” deve dimenticarsi di sé stessa, di chi è realmente, ovvero deve sprofondare nell’oblio della sua vera origine ed essenza che è Dio stesso, l’ Assoluto. Il “gioco di Dio” infatti, può reggersi proprio grazie a questo oblio, al “dimenticarsi” della (nostra) reale natura divina.

Ecco allora che a partire da questo presupposto, prende le mosse il lavoro di Harish Enrico con I fiori del silenzio: un invito al “ricordo” di Sé.

Ed è proprio così. Perché come ogni serio ricercatore della verità giunge prima o poi a capire, non c’è niente da “raggiungere” ne tanto meno qualcosa da “ottenere” se non di ricordare chiaramente ciò che siamo già e che siamo sempre stati. Per questo motivo tutti gli sforzi volti a raggiungere o ad ottenere una qualsiasi meta in realtà non fanno altro che allontanarci sempre di più dalla verità, aggiungendo concetti su concetti e alimentando così l’illusione: perché quello che cerchiamo lo siamo già adesso. Dovremmo semmai ripulire, fare spazio, eliminando progressivamente tutti i concetti e tutte quelle credenze accumulate che alla fine ci legano come catene alla nostra piccola individualità. Eccolo qui il “divino inganno” del grande Architetto: Dio onnipotente che sogna di essere un piccolo e limitato essere miserabile! Ma come è potuto accadere nello specifico? Beh, come spiegava il grande Nisargadatta Maharaj, tutto parte da un “puntolino” che dà origine al nostro apparato psico-fisico, uno strumento congegnato a percepire la coscienza, il senso di essere, di esistere; questa coscienza che appare spontaneamente nel nostro corpo fisico delimitato, finisce inevitabilmente per identificarsi con esso, creando in questo modo dei “confini” e sviluppando quel senso di separazione e di limitatezza che si concretizza nella nascita di una personalità. Ma questo io, questa entità individuale e differenziata è in sé farlocca e irreale, in quanto legata indissolubilmente al tempo e quindi impermanente. Essa è altresì inconsistente essendo un mero “prodotto” dei cinque elementi e dei tre guna (energie), ed è incapace di “vera volontà” in quanto continuamente condizionata e inesorabilmente plasmata dall’ambiente circostante. È inoltre incapace di provare “vero amore puro” per il fatto che questo amore non sarà mai completamente incondizionato, ma legato bensì ai meccanismi dell’ego.

In questo senso possiamo quindi affermare che la nostra essenza, il nostro divino Sé quale realtà eterna ed immutabile, è in perenne ostaggio di un’entità fasulla che per le sue caratteristiche e peculiarità oggettive sembra invece essere dotata di una vita propria!

Superfluo dire che in questo processo la mente gioca ovviamente un ruolo chiave.

Come fare quindi per spezzare l’incantesimo, per risvegliarci dal sogno, ovvero per rimuovere quel velo di polvere che ci occulta la realtà che già siamo?

Ecco allora che I fiori del silenzio di Harish Enrico si aprono in tutta la loro bellezza, mostrandoci i loro sublimi petali: ogni capitolo di questo libro infatti rappresenta a mio avviso un bellissimo petalo, che ci illumina la strada in direzione di questo mirabile processo di risveglio.

Dobbiamo innanzitutto essere pronti a vedere il reale per reale e l’irreale per irreale, scoprendo che quello che pensavamo di essere, ovvero corpo, sentimenti, pensieri, idee, emozioni, non lo siamo.
Ma dobbiamo osservarci seriamente per vederlo in maniera chiara, fino ad arrivare ad un certo punto a testimoniare stabilmente che noi in essenza non siamo altro che lo sfondo immutabile in cui accadono tutte le cose; questo processo di auto-osservazione può avvenire solamente attraverso la nostra totale presenza, ovvero dimorando nel qui e ora, quell’ hic et nunc tanto caro agli antichi.
Nella nostra quotidianità infatti, noi raramente siamo presenti a noi stessi e proprio per questo motivo viviamo letteralmente nell’inconsapevolezza sballottati continuamente fra il passato e il futuro senza un centro di gravità permanente. Entrare in uno stato di presenza significa infatti spezzare la meccanicità del nostro apparato psico-fisico che ci mantiene nel sonno dell’inconsapevolezza: ecco che, di conseguenza, riusciremo allora a percepire chiaramente (non senza una certa sorpresa) la nostra falsa identificazione con la nostra macchina biologica, e al contempo, a sentire chiaramente quello che siamo realmente, ovvero il nostro Sé immortale. Questo significa appunto “ricordare”: significa riportare al cuore, l’antica sede della memoria, quello che siamo sempre stati ma che a causa del nostro lungo viaggio nel mondo della materia avevamo dimenticato.

Ma è un processo in cui bisogna togliere non aggiungere, diceva Nisargadatta; esattamente come quando non ti ricordi più dove hai messo una cosa: che cosa fai? Per prima cosa elimini tutto il “superfluo” e poi ci rimani lì fisso con la mente finché non ti riaffiora il ricordo.

Certo non è facile, almeno inizialmente, perché la meccanicità del nostro stato ipnotico ci proietta continuamente nel “film” e noi ci identifichiamo altrettanto continuamente con la marionetta che recita in quel film; ecco allora che, almeno inizialmente, lo “sforzo” consiste unicamente nel cercare almeno di ricordarci che non stiamo vivendo in presenza, riportando in questo modo, ogni volta, l’attenzione su noi stessi. Ogni giorno, peraltro, noi tutti siamo continuamente immersi, se non travolti, dagli eventi che la vita ci riserva, e non possiamo impedire che questi eventi accadano andando a condizionare il nostro apparato psico-fisico; ma la vita in realtà è perfetta, e la maggior parte delle volte non ci accorgiamo che essa è lì proprio per offrirci tutto il “materiale” necessario per la nostra completa evoluzione, per farci compiere un autentico balzo verso la consapevolezza, se solo lo sappiamo sfruttare: quando gli eventi sembrano “incalzare”, infatti, se noi anziché rifuggire riusciamo ad accoglierli e a viverli in piena presenza osservandoli semplicemente con distacco, allora avremo compiuto un perfetto lavoro alchemico, un passo in più nella direzione della nostra personale trasmutazione verso l’Essenza che siamo.

In questo contesto ogni capitolo dell’opera di Harish Enrico e lì per ricordarci, da differenti punti d’osservazione, di volgere lo sguardo verso noi stessi invitandoci a vedere e ad assaporare, man mano, sempre più il nettare della nostra essenza. Il mio consiglio perciò su questo bellissimo libro palindromo è quello di leggere più volte ogni capitolo, magari aprendo di volta in volta una pagina a caso per assimilarne il contenuto e cercare di metterlo in pratica nella vita di tutti i giorni: siate certi che in questo modo, prima o poi, I fiori del silenzio sbocceranno sicuramente all’interno delle vostra vita tramutandola così in uno splendido e unico grande fiore.

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