Una storia Ḥassidica che parla di gioia nella tristezza Fontana Editore

Una storia Ḥassidica che parla di gioia nella tristezza

Fabrizio Piola

C’era una volta un Ḥassid che non era più in grado di ripagare i suoi debiti ed allora, come era costume a quel tempo, venne preso e sbattuto in prigione.

Quel Ḥassid era un uomo molto pio, e cercò di sforzarsi in ogni modo di rispettare anche nel carcere quante più mitzvot gli riuscisse possibile osservare. Tuttavia nella cella veniva tenuto per tutto il tempo anche il bugliolo che lui stesso, ed i suoi compagni di cella, usavano per le necessità fisiologiche.

Questo fatto, e l’impurità che ne conseguiva, comportava per lui l’impossibilità di mettere i tefillin per la preghiera, che tra tutte le mitzvot è certo una delle più sacre ed imprescindibili.

Il fatto di non poter mettere i tefillin rese il pio Ḥassid terribilmente triste. Può aiutarci a comprendere la profondità ed intensità della sua tristezza se ora diremo che spesso si paragona nel mondo Ḥassidico l’avvolgimento ripetuto dei tefillin intorno al dito all’anello nuziale che congiunge lo sposo alla sposa, e che in questo caso unisce l’Ḥassid ad HaShem. Quando la stringa di cuoio girando forma un anello intorno al dito, le parole della preghiera diventano parole di sposalizio tra l’anima ebraica ardente d’amore per il Creatore ed il Signore, D-o dei nostri padri.

Non potendo più indossare i tefillin nella sua cella della prigione non solo il pio Ḥassid era fisicamente separato dalla sua sposa terrena e dai suoi figli, ma era ancor più dolorosamente separato dalla Sposa Celeste. Nella sua cella adesso era lì, completamente solo ed isolato da ciò che amava.

Qualche giorno dopo il Rebbe andò a visitare l’Ḥassid in prigione. Quando lo vide l’Ḥassid non riuscì a trattenere i suoi sentimenti ed il suo cuore si aprì davanti al Rebbe.

“Perché mai non stai indossando i tefillin?”, gli chiese quasi subito il Rebbe.

L’Ḥassid si stupì della domanda perché era ovvio che il Rebbe sapesse già la risposta. Non di meno l’ Ḥassid disse che non era permesso indossare i tefillin in un luogo impuro dove si trovavano esposti escrementi umani.
“Che grande occasione di gioia, allora!” disse il Rebbe. “Tu dovresti danzare davanti ad HaShem per ringraziarlo di averti dato l’opportunità di osservare la mitzvah che proibisce di indossare i tefillin, una cosa che la quasi totalità di noi non ha mai la possibilità di fare nella vita”.

L’Ḥassid alzò gli occhi ed immediatamente si sentì pervadere da una grande ed improvvisa gioia.

Ma questa storia non termina qui. Infatti quando l’Ḥassid comprese che anche il fatto di non indossare i tefillin era anch’esso una mitzvah, un raro e difficile comandamento che ben pochi si sono mai trovati nelle circostanze particolari richieste per osservarlo, allora il suo cuore si colmò di gioia per poter servire HaShem in un modo così nuovo e prezioso. E compresa la grandezza della sua gioia seguì alla lettera le istruzioni del Rebbe ed iniziò a ballare per manifestare agli occhi di HaShem la sua gioia, quella che ora lui provava lì, nella cella e tra i suoi compagni. Questi ultimi furono come contagiati dalla ebrezza e nel giro di pochi istanti tutti i reclusi della cella si unirono all’ Ḥassid e ballarono e cantarono con lui, colmi di entusiasmo nel riconoscere anche in quel luogo la Divina Presenza dell’Eterno.

Una guardia sentì il frastuono e chiese all’altra che cosa stesse succedendo nella cella degli Ebrei. “Non ho capito bene”, rispose l’altra guardia, “so solo che è qualcosa che ha a che fare col bugliolo”.
“Bene!”, disse allora la prima guardia, “adesso gliela faccio vedere io!”. Entrò nella cella con l’intenzione di punirli, e tolse il bugliolo portandolo fuori con sé quando richiuse la porta.


א  מִזְמוֹר לְדָוִד:    יְהוָה רֹעִי, לֹא אֶחְסָר.

ב  בִּנְאוֹת דֶּשֶׁא, יַרְבִּיצֵנִי;    עַל-מֵי מְנֻחוֹת יְנַהֲלֵנִי.

ג  נַפְשִׁי יְשׁוֹבֵב;    יַנְחֵנִי בְמַעְגְּלֵי-צֶדֶק, לְמַעַן שְׁמוֹ.

ד  גַּם כִּי-אֵלֵךְ בְּגֵיא צַלְמָוֶת, לֹא-אִירָא רָע--    כִּי-אַתָּה עִמָּדִי;
שִׁבְטְךָ וּמִשְׁעַנְתֶּךָ,    הֵמָּה יְנַחֲמֻנִי.

ה  תַּעֲרֹךְ לְפָנַי, שֻׁלְחָן--    נֶגֶד צֹרְרָי;
דִּשַּׁנְתָּ בַשֶּׁמֶן רֹאשִׁי,    כּוֹסִי רְוָיָה.

Salmo 23, 1-5

rabbino incarcerato

Nelle lezioni preliminari impartite prima di affrontare lo studio della Torah è essenziale che lo studente capisca che si troverà davanti ad un oggetto di studio morfologicamente complesso a livello materiale, perché quel livello è connesso a precisi significati relativi alla complessità della sua morfologia spirituale. Non si tratta infatti solo di affrontare un testo ma di confrontarsi ed esporsi ad un “corpo”, nella totalità e nella potenza della sua fisicità.

I caratteri scritti nello speciale inchiostro e tracciati dal sofer stam - lo scriba – con l’apposito stilo, verrà detto allo studente che sono un “Fuoco Nero” che arde, senza consumarlo, su di un “Fuoco Bianco”, cioè la pergamena su cui l’inchiostro è steso. Già concentrandoci su questi soli due elementi possiamo intuire da un lato la prodigiosa complessità dell’interpretazione e dall’altro l’infinità quantità di risorse che esso fornisce. Non solo infatti è fondamentale la forma del tratto nero che delinea e delimita le lettere, perché ognuna di esse è una “ot”, cioè un segno con un ricchissimo corredo di significati esoterici e cabalistici, ma lo stesso spazio bianco e la sua forma negativa che circonda le lettere, quando preso in considerazione come una forma al positivo, dà a sua volta un’immagine che soccorre l’interprete ed integra i significati attinenti alla forma “Nera” del sacro fuoco che scorre nel testo dandogli vita e che anima anche la Torah stessa in quanto oggetto “vivente”, accudito e venerato dalla comunità.
Perché allora questo racconto misterioso ci sembra essere così interessante? Perché esso ci parla della strategia di liberazione dai limiti impostigli dalla realtà di un prigioniero, che si avvale a sorpresa del gioco dello scambio tra sfondo e figura che non è nient’altro che il saper ricorrere al Fuoco Bianco, ed alle sue forme normalmente trascurate, allorquando il Fuoco Nero sia impossibilitato o limitato a produrre il suo potere.

Ed il gioco è un gioco di sponda in cui ci vuole un altro essere umano (il Rebbe) che e colui che fornisce quel punto di appoggio “altro” da noi grazie al quale possiamo finalmente issarci al di sopra del muro e liberarci dal Male e, volendo, possiamo anche celebrarne la sconfitta con una danza e con un canto che esaltano la Gioia e l’Armonia ritrovate.

Tutto ciò che ci succede nella vita è come un succedersi di carte che il mazziere ci gira e ci presenta. Alcune “ot” sono facili da leggere e da usare, altre sono ostiche e possono diventare blocchi apparentemente insormontabili.
Ma per il cabalista tutte le situazioni che si succedono nel tempo della nostra breve vita devono essere interpretate ed usate come Scale, opportunità e mezzi per salire verso le Stelle ed i Mondi Superiori. Il grande merito e potere caratteristico dello Tzadik - il vero saggio - è quello di saper cambiare di segno alle situazioni e trarre spunto e slancio da ciò che dai meno sapienti è visto e vissuto come uno sbarramento, o un limite massimo invalicabile.

Quanto è facile arrampicarsi sulla Lamed dei Maestri che vedono lontano, e quanto è difficile sottrarsi al labirinto della Bet nascosta nella verbose volute della Peh, per riuscire a riprendere con vigore il nostro cammino!

Quando nella vita ti troverai in una situazione in cui ti sembrerà di essere finito in cella, indebitato e senza mezzi, ebbene è almeno allora che dovrai chiederti con onestà il perché. Ma non per compiangerti. Da questa domanda infatti è possibile ti scaturiscano idee illuminate che ti consentiranno di usare la situazione ostruttiva come una “scala al contrario” ed usarla così, in modo imprevedibile e nuovo, per riuscire a salire, ancora e comunque.

Là dove i dispersi e i disconnessi vedono un problema gli tzadikim vedono un’opportunità che è rivelata loro dalla Luce potente della connessione che essi sanno mantenere con la Fonte stessa di ogni Essere.

Magari non saremmo tzadikim, ma se mai ne vedessimo uno danzare nella sua cella come se fosse un uomo libero e felice sotto la volta stellata del cielo, allora danzeremo con lui, avanzando insieme nella Luce, bezràt HaShem.

Tzur Trevi (aka Fabrizio Piola)

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