RIGPA. Il massimo mistero della Vita

RIGPA. Il massimo mistero della Vita - Parte 1

Leonardo Anfolsi e Alessandro Rusticelli

E la Riscoperta di una Libertà Sconfinata

Qua trattiamo di un mistero reale, non una finzione letteraria; una dimensione dell’esistenza comumente-non-rilevata, eppure essenziale. Daremo contezza storica e filosofica di quanto diciamo, arricchendo questa nostra ricerca coi risultati di studi accademici, certamente, ma anche di quelle intuizioni che vengono dall’esperienza di personaggi eccezionali, che hanno attraversato questa terra di nessuno e sono tornati per raccontarcelo. Lo faremo nel modo più nudo e utile per tutti noi: fuori da metafore e dogmi d’ogni tipo, rivolgendoci solo ai fatti.

La convinzione della maggior parte dell’Occidente a riguardo di ciò che è “fisico” - e perciò vero - in contrasto al cosiddetto “sovrannaturale” ci ha sviato al punto che la scoperta di questo Mistero e la divulgazione della sua esistenza ci suona strana, anche perturbante. La più grande differenza con quelle Verità che “ci stanno sotto gli occhi” - secondo i crismi della rivelazione o dell’ovvietà - è data dal fatto che il mistero che stiamo per rivelare abita dentro di noi, nel nostro stesso sguardo. O meglio, è come se tale sguardo fosse illimitato dall’interno.

Quello di cui parliamo non è dunque un mistero del mondo, che possiamo cercare di risolvere cercando in giro, ma appartiene al nostro stesso sguardo.

Esso precede ogni opinione e la chiarezza che lo accompagna è tale da risultare incredibile, stupefacente, anche quando finalmente realizziamo che è semplicemente la nostra stessa natura. L’eccezionalità che esprime questa dimensione è fuori dal tempo e dallo spazio: anche se potessimo definirlo “un qua oceanico”, non risulterebbe in realtà posizionabile in alcun luogo, essendo ovunque e al contempo entro il mistero stesso della nostra presenza. Quindi è ubiquo, ma soprattutto è parte del nostro campo di esperienza e, fra l’altro, della nostra storia più intima e più segreta fin da quando eravamo neonati, anzi soprattutto quando eravamo neonati.

Non è neppure “dietro ai nostri occhi” in termini fisiologici, che so, nell’ipotalamo o nel chakra del terzo occhio, perché questo nostro mistero è sia ciò che da noi guarda, sia la vita stessa di tutto l’universo, anche quello che non conosciamo, che non sappiamo collocare, né potremmo immaginare fosse anche in un qualche altrove. Semmai l’ipotalamo o il sesto chakra ne sono le manifestazioni su piani che potremmo definire “inferiori”.

È come se tutto l’universo nella sua vastità guardasse dai nostri occhi. Qualcuno se ne è accorto mentre rischiava la vita durante un incidente, o nel tormento estremo, o mentre “per la prima volta nella mia vita ho visto le arance”. Il modo più furbo per realizzare questa meraviglia è evocarla nella nostra meditazione, uscendo dal conosciuto, imparando il silenzio e spalancando il nostro sguardo, sia interiore che quotidiano.

Scriviamo qua di mistero non per creare suspence ma per incoraggiare chi vuole cercare questo “stato”, che è l’esperienza più evidente ma inaspettata, più necessaria da esperire, eppure rara fra quegli uomini e quelle donne oramai adulti, seri e credibili, che corrono all’impazzata dietro alla “verità” nello stesso modo in cui cercano di sopravvivere; invece questo mistero è la cosa più intima che possiamo mai avere intuito, la dimensione in cui vivevamo quando eravamo appena nati, che poi abbiamo dimenticata per inseguire il mondo…

Ma adesso dobbiamo ripulire il davanzale dalla polvere delle parole, dalle concettualizzazioni, se vogliamo sporgerci e vedere la nuda realtà esperienziale come vorrebbe un vero e sincero ricercatore dei fatti. Proprio mentre scriviamo di questa “purificazione preliminare” ci vengono in mente le parole di un maestro del passato che sottolineò come, in realtà, tutto sia già puro. Durante una tenzone poetica con il capo dei monaci presso il tempio del suo maestro lui, laico e analfabeta, chiese di avere scritta la sua composizione. La prima è la poesia del colto capo dei monaci, la seconda in corsivo è la sua, che al tempio puliva e macinava il riso in cucina.

"Il corpo è l'albero sotto il quale si illumina il Buddha, la mente è come uno specchio chiaro; Continuamente sforzati di lucidarlo, per non lasciare che vi si raccolga la polvere.”

"L’illuminazione non ha a che fare con quell’albero, Né esiste qualsivoglia sostegno di alcuno specchio. Poiché tutto è vuoto (cioè “unificato”) fin dall'origine, Dove può mai posarsi la polvere?

Quando siamo bambini possiamo credere cose sciocche come ad esempio che la radio sia abitata da omuncoli che parlano e suonano o che ci danno le notizie del giorno, però - di converso - abbiamo una lucidità del tutto particolare - chiamiamola “metafisica” - grazie alla quale compiamo gesti eroici, generalmente considerati privi di senso, come parlare ai piccioni e ascoltare ciò che dicono; ma ciò che più conta è che abbiamo un senso dell’immensità che ci è caro e normale, al punto che potremmo cercare d’afferrare un aeroplano in volo con le dita. Fortunatamente non ci riusciamo, così l’incolumità dei passeggeri del volo B4117 Parigi - Roma è assicurata.

Ma ecco che nello stesso modo possiamo diventare pericolosi da grandi, e questa volta per davvero, credendo nella scienza come anche in qualunque altra cosa che consideriamo vera in assoluto, senza alcun bisogno di riconsiderarla, aggiornarla o discuterla. Perlomeno il bambino, nella sua innocenza, si ricorda con quell’atto innocuo di essere questa realtà vivente in quanto IO = MONDO.

Ora dallo Zen, nel tentativo di spiegarci, passiamo un momento al Buddismo tibetano, ove esiste un concetto fondamentale, sebbene poco noto all’Occidente: il rigpa. Esso rappresenta uno dei pilastri dello dzogchen, l’insegnamento considerato da molti lama il più elevato e segreto della tradizione degli antichi, i nyingmapa, e del bön, ovvero di quella saggezza millenaria che informò tutto il Centro Asia in tempi ormai perduti.

Però. Tutti i livelli più alti della pratica, nel mondo tibetano come nell’insegnamento tantrico in genere, sono preceduti dalla pratica che realizza l’incontro dell’individuo con la potenza divina, dallo studio filosofico e dalle pratiche ngöndro. Questo è solo per dire che in genere, per raggiungere questo “lasciare andare”, si è certamente incoraggiati in una pratica religiosa/filosofica necessaria.

E tuttavia, ben presto, si dovrà affrontare la nostra mente osservandola, per capire come ne viviamo tutti gli aspetti. Urgyen Rinpoche, come molti esponenti di questa tradizione, affermava che osservando la nostra mente possiamo riconoscere una consapevolezza limpida e spontanea, una detonante eppure pacifica e gioiosa presenza-nel-qui-e-ora, che non conosce nascita né morte, chiamata, appunto, rigpa. Mettendo a fuoco la nostra mente ordinaria, vediamo come sia costantemente influenzata dalle circostanze della vita, ove preoccupazioni e pensieri la affollano arrivando al punto di apparentemente oscurare perfino la chiarezza della nostra percezione e quindi dell’intuizione immediata della realtà.

Sarebbe straordinario poter volare al di sopra delle nuvole di emozioni e pensieri conflittuali e scoprire che, anche nei giorni più bui, il cielo può certamente rimanere sereno. Il Buddismo, in tutte le sue scuole, seppur in modo diverso, ci insegna che ciò è possibile attraverso la meditazione. Di fronte a un enorme ventaglio di proposte, indipendentemente dal metodo che scegliamo, meditare ci aiuta a risvegliarci alla nostra vera natura, quello stato di apertura e presenza che precede ogni condizionamento, permettendoci di fluire con la vita, invece di cercare di controllarla spinti dalla paura e dall’attaccamento.

Il rigpa, spesso tradotto come “consapevolezza primordiale” o “conoscenza diretta della realtà”, non è semplicemente uno stato mentale, ma l’essenza stessa del nostro essere: silenziosa in un suo modo unico, luminosa, potente, beata e quindi intrinsecamente positiva. Come si pratica lo stato di rigpa? Per raggiungerlo è necessario riconoscere quel noi-stessi-che-resta-in-se-stesso-senza-avere-bisogno-di-altro. Una pace e un silenzio impressionanti accadono allora: il respiro sembra sospeso, lo sguardo è immobile, l’eternità si fa intendere come una vertigine sconfinata e in sé perfetta.

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