
RIGPA. Il massimo mistero della Vita - Parte 2
Leonardo Anfolsi e Alessandro RusticelliPer ora abbiamo dato seduttivamente qualche lume - come è usanza nello zen - con discorsi che ci riportano alla nostra “natura di Buddha”, per attizzare il satori o, almeno, il kensho negli ascoltatori. Il lettore troverà una spiegazione di queste due parole più avanti, ma intanto è importante porsi la giusta domanda, mantenendola con noi ogni istante senza troppo chiasso”, come una eco sottile: “Chi sono io?”
Chögyall Namkhai Norbu ripeteva spesso che perfino una via così “spontaneistica” e “immediata” ha in realtà bisogno di un allenamento; perché anche se il riconoscimento del rigpa è immediato, incontrovertibile e di-per-sè-eterno, dal momento che purtroppo tutti noi viviamo anche e soprattutto nel mondo delle convenzioni, dobbiamo riuscire a coglierne la vera essenza, che però sta al di fuori del tempo.
Una certa distopia materialista ha ispirato qualche folle a ideare un microchip esistenziale capace di contenere tutte le esperienze di vita di un individuo, le sue memorie e abitudini, per innestarle in un robot con le sue sembianze; In un momento storico capace di questo delirio è fondamentale mantenere un sano senso della realtà che, portato ai suoi massimi risultati, può permettere infine proprio l’illuminazione.
E c’è una bella differenza fra avere una paura incontenibile della morte e invece vedere che è parte della vita, essendo soltanto un corrispettivo della nascita, una forma del tempo-durata, cioè fatto di minuti, ore, giorni. Nient’altro.
Cosa vuole dire essere oltre il tempo? È possibile che l’eternità possa essere realmente vissuta? E che cos’è per noi? Un’intuizione? Un’emozione? Un’idea? E come può cambiare la nostra vita, quest’eternità che tutto permea, ma che i più connotano come inumana, fredda e degna solo di esseri sovrumani?
Come possiamo raggiungerla? Queste domande, ovviamente, riguardano anche la morte, un tema che di solito viene rimosso fischiettando; ma la meditazione ci dà proprio il potere di superare ogni equivoco e soprattutto l’importanza schiacciante data alle parole, che paiono descrivere ex divinis cos’è il mondo e il nostro ruolo in esso.
La meditazione nuda, silenziosa, ci restituisce la realtà per come è - sempre che vogliamo accorgercene - e l’eternità può finalmente essere vissuta nel silenzio della nostra intimità. E perché questo stato sarebbe l'eternità? Forse ci aspettavamo qualcosa di straordinario e invece no: nessun angelo ce l’ha conferita, nessun dio ce l’ha rivelata, ma è solo frutto della nostra pervicacia, del coraggio nell’esporsi alla realtà per come essa è, anche se piove e fa freddo.
Si. Può. Fare.
Forse l’assorbimento profondo nell’eternità si realizza proprio nell’emozione di smarrimento, un perdersi a sé stessi e al mondo che in fondo è un ritrovarsi su un piano più alto d’esistenza. E la paura dello smarrimento non può che essere, allora, la prova finale. Ci muoviamo dunque controcorrente, in direzione opposta al pensiero convenzionale.
A questo proposito vorremmo citare alcuni episodi di tendenza opposta che dimostrano come la ricerca scientifica non sia qualcosa di libero dall’ideologia di chi la svolge, che non è a prescindere dalla sua cultura e dalle sue scelte. Iniziamo da questo fatto: quando la Society of Neuroscience, nel 2014, mise sul calendario dell’incontro annuale a Washington la partecipazione del Dalai Lama, qualche centinaio di persone su trentacinquemila iscritti, inviarono la disdetta. La motivazione: le sue idee non erano conformi alla verità mainstream.
In un’altra occasione, fu l’università del Wisconsin, tramite il Center for Health and Mind, a richiedere la presenza e la partecipazione alle ricerche sulla mente del S. S. Dalai Lama e del suo staff. In quel caso tutto andò per il meglio, e così - premuniti di fMRI e PET - ecco che di nuovo si tornò a parlare della meditazione, mentre il Dalai Lama affermava: “Ho un grande rispetto degli scienziati anche se, in realtà, loro non possono dare nessuna prova scientifica del nirvana. La scienza può solo confermare che certe tecniche di meditazione possono fare la differenza fra una vita felice e una miserabile. Ma per quanto riguarda la vera comprensione della natura della nostra mente, solo meditando la si può realizzare”.
Una cosa ugualmente rimarchevole accadde quando un centro di ricerca medica israeliana e segnatamente ebraica volle confrontare in modo critico - a nostro parere più che legittimo - quale fosse meglio: la meditazione o la preghiera ritmata della tradizione ebraica; ovviamente vinse la seconda, ma la motivazione è ben più interessante della tenzone in sé. In genere vengono osservate come conseguenze della meditazione una crescita della corteccia cerebrale, ma in questo caso fu sottolineato il fatto che - a loro parere - si accendessero solo le “aree dello smarrimento”. Eppure con una corretta traduzione dei salmi avremmo (salmo 65:2): “Per Te, o Dio, in Sion, il silenzio è lode; ed i voti a te devono essere adempiuti1”.
Lo stato di eterna immutabilità quando è realizzato al centro del movimento incessante della nostra esistenza, è un modo davvero completo di definire il rigpa, il termine pivotale riguardante la radice dell’esperienza umana di cui si è detto sopra. È questo il luogo nel quale Parmenide e Eraclito concordano perfettamente: tutto è immoto per chi vive la realtà per ciò che davvero è, ovvero l’eternità all’interno del movimento incessante delle cose, dei nomi e dei fenomeni. I paradossi, del resto, concernono sovente affermazioni riguardanti livelli diversi dell’esperienza.
Rigpa è un concetto straordinario che trova corrispondenze anche in altre scuole del Buddismo, come vedremo, e ci siamo assunti come compito quello di mostrare questo mistero da varie direzioni, lasciando ulteriori riflessioni a future pubblicazioni.
Ora ritorniamo indietro di qualche pagina: nello zen si parla come abbiamo detto di kensho e satori, esperienze improvvise di risveglio che consentono di percepire la realtà direttamente, al di là del pensiero dualistico e delle costruzioni mentali. Un’altra nozione affine è il tathāgatagarbha, “il grembo del bene-andante” che indica la saggezza illuminata che è innata in ogni essere, proprio come ognuno nasce dal grembo luminoso della madre. Questa gnosi splendente, da sempre presente, ma oscurata dalle illusioni di un Io in conflitto con tutto, finalmente si sveglia e manda i primi vagiti.
Anche il Buddismo Theravāda, apparentemente così distante dallo zen e austero, è ricco di riferimenti simili. Nel Mahāsatipaṭṭhāna Sutta, per fare solo un esempio, si parla della contemplazione della mente oltre i suoi stati transitori: ecco l’esperienza del silenzio consapevole, che è quello spazio che fa da sfondo al sorgere e dissolversi dei pensieri, un modo diverso per descrivere il rigpa.
Ajahn Chandapalo, maestro tailandese della tradizione della foresta, ha descritto brillantemente questa esperienza sottolineandone l’importanza anche per la crescita personale; potremmo sintetizzare il suo pensiero nel modo che segue: “Durante la meditazione, man mano che il continuo sorgere ed estinguersi di esperienze ed emozioni diventa familiare, appare chiaro che nulla di ciò ci appartiene davvero. Quando i contenuti della mente si placano, emerge una spaziosità luminosa, priva di caratteristiche puramente personali. Può essere difficile da comprendere, forse anche disturbante per alcuni, ma in realtà non c’è nessun ‘me’ e nessun ‘mio’: è l’anattā, l’insegnamento più particolare e spiazzante del Buddha, che riguarda la fondamentale e realistica mancanza-di-ego che possiamo tutti scoprire”.
Come può incontrare questa mancanza-di-ego la “crescita personale”, quel “lavorare su se stessi” che tutti noi sentiamo necessario per trovare la nostra strada nel mondo? È importante capire che un percorso non esclude l’altro, anche perché il rinvenimento del non-ego non è un percorso come l’altro. Il non-ego lo vediamo di persona un bel giorno meditando e meditando - cioè lasciando andare i concetti e gli attaccamenti - mentre imparare a relazionarsi, a essere convincenti e sinceri, è per davvero un percorso di crescita nel quale stratifichiamo informazioni e esperiamo stimoli che, tuttavia, ci portano infine a scoprire tutto quello che circonda inevitabilmente il non-ego.
In altre parole, con la pratica della meditazione, realizziamo uno spazio interiore che ci permette di distanziarci da ciò che noi crediamo di essere e da ciò che, per presunzione, pensiamo di possedere per contratto, magari perché lo abbiamo letto su un libro; in realtà l’illuminazione è già innata in noi, ma riconoscerla è importantissimo.
Raggiungiamo allora, meditando, un centro di muta presenza nel flusso incessante della quotidianità, che ci permette di rispondere al presente con maggiore lucidità, portando armonia nella vita e nel mondo. Questo è il modo in cui la meditazione agisce a livello sociale, portando consapevolezza nella nostra esistenza e pace nel mondo.
Mentre il Theravāda si concentra su una progressiva conoscenza e purificazione della mente - storicamente e metodologicamente tipica del primo Buddhismo che fu esclusivamente monacale - le scuole tibetane e sino-giapponesi puntano direttamente al riconoscimento della nostra natura fondamentale. La mente è sempre quella ma si tratta di approcci diversi che mirano a realizzare la stessa straordinaria intuizione del Buddha.
Sati-sampajañña, satori, rigpa, mahamudra: queste idee così profonde e affascinanti non appartengono esclusivamente all’Oriente. Anche nella filosofia occidentale esistono concetti affini e uno di questi si trova nel pensiero di Martin Heidegger, il filosofo forse più influente della modernità. In Essere e Tempo, Heidegger introduce il concetto di apertura (Erschlossenheit), la condizione che permette all’essere umano (Dasein) di esperire il mondo in modo autentico. L’apertura è ciò che consente di cogliere l’essere in quanto tale, al di là degli schemi mentali abituali.

Immaginiamo uno stretto sentiero che si apre di colpo su di una vasta prateria: ecco, questa è l’Erschlossenheit, la possibilità di accedere a una dimensione della realtà che di solito rimane nascosta dalla percezione ordinaria, quella che resta in noi inespressa a causa di un unico e ristretto percorso. Una rivelazione che può anche spaventare, perché mette in discussione l’idea che abbiamo di noi stessi, la realtà apparentemente scontata dell’ego che ci rassicura e motiva, certo, ma solo nella nostra limitatezza e ripetitività.
In fondo come dice un antico detto zen “perdersi è l’unico modo per ritrovarsi”. Nello dzogchen, il riconoscimento del rigpa dissolve l’illusione dell’Io e conduce alla realizzazione della realtà assoluta, mentre in Heidegger, l’apertura è definita come un risveglio all’autenticità dell’esistenza.
Il filosofo tedesco non s’interessa alla meditazione e non parla di una realtà ultima al di là delle apparenze (samsara), ma descrive parimenti la possibilità di vivere in modo più genuino, sfuggendo alla dimensione inautentica del “si dice”. Questo approccio più familiare a noi occidentali - eppure sconosciuta ai più - è affine a un’interpretazione psicologica del rigpa, tuttavia il messaggio di fondo non cambia: la consapevolezza è la capacità di arrivare al ground zero, come dice Ajahn Sumedho, quello stato originario che precede ogni condizionamento, “il volto che avevamo prima di nascere”.
L’insegnamento del Buddha è proprio questo: un invito a svegliarci in un mondo ove si cerca in ogni modo di mantenerci addormentati. Crediamo di essere liberi, o almeno così ci dicono politici e giornali, ma non lo saremo mai per davvero finché rimaniamo intrappolati nelle convenzioni e nelle abitudini che guidano la nostra vita silenziosamente. La meditazione è importante perché serve proprio a questo scopo: che sia zen, dzogchen, mahamudra o vipassanā o altro ancora. Praticandola impariamo a usare la consapevolezza per liberarci dalle distorsioni che condizionano la nostra visione del mondo e di noi stessi, scoprendo la vera libertà.
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