Corpo. Il codice del divino - Alessandro Rusticelli

Corpo. Il codice del divino

Alessandro Rusticelli

“Il corpo è la prima dimora del sacro.” (proverbio africano)

Nel cuore delle culture tradizionali, molto prima dell’avvento delle religioni codificate e dell’intervento coloniale, la vita era percepita come un insieme indivisibile. Non esistevano confini rigidi tra corpo e spirito, tra piacere e preghiera. Il mondo visibile era continuamente attraversato da forze e poteri invisibili. In quell’epoca lontana, avvolta nel mistero, la sessualità non era vissuta come un peccato, ma come linguaggio del sacro, rituale di potere e gesto creativo. In questo breve contributo esploreremo assieme il modo in cui l’eros è stato concepito e celebrato in alcune culture extra-occidentali, spesso marginalizzate nel pensiero dominante: dal Vicino Oriente ai paesaggi simbolici dell’Africa animista, fino alle violente civiltà dell’America precolombiana. In ognuna di queste tradizioni, il corpo non è mai solo oggetto, ma strumento, simbolo e porta d’accesso al mistero.

Vicino Oriente – Il sesso come potere cosmico e regalità divina

Nel mondo mesopotamico, uno dei più antichi e sofisticati della storia umana, la sessualità non era relegata alla sfera privata. Era un atto politico, teologico e cosmico. Le celebri nozze sacre tra il re e una sacerdotessa della dea Inanna (poi identificata con Ishtar) non erano soltanto un rituale simbolico: si trattava di una vera e propria liturgia del potere, una rappresentazione terrena dell’unione fra la dea e il sovrano-pastore Dumuzi. L’atto, probabilmente celebrato nel tempio attraverso un’unione reale, serviva a rinnovare l’energia vitale del mondo, favorendo la fertilità della terra, garantendo i raccolti e la continuità dell’ordine sociale. In poche parole, l’orgasmo umano si faceva eco di quello originario del cosmo e ripetizione della creazione.

È poco noto, ma questa visione si propagò anche alle culture pre-islamiche della penisola arabica. Prima dell’unificazione religiosa portata dall’Islam, l’Arabia era un mosaico di culti e santuari. Tra le divinità più venerate figura la triade Al-Lat, Al-Uzza e Manat, signore del destino e delle fasi lunari. È evidente che il contatto con le civiltà di Babilonia, Siria ed Egitto - dove le pratiche erotico-sacrali erano fiorenti - alimentò nell’Arabia rituali simili, che includevano danze sensuali, gesti di possessione divina e offerte al tempio. Tracce di questo processo si ritrovano anche nella poesia beduina preislamica, che offriva una visione più intima ma non meno spirituale dell’eros.

Poeti come Imru’ al-Qays e Majnun Layla descrivevano l’amata come fonte d’estasi, miraggio nel deserto e porta verso l’invisibile. L’amore inappagato diventava per loro un vero e proprio trampolino verso l’assoluto, anticipando alcuni temi cari al Sufismo. Con l’avvento dell’Islam, molte delle pratiche legate al sesso sacro vennero riformate o represse, tuttavia i mistici Sufi, continuarono a considerare il desiderio una via privilegiata verso Dio. Le grandi voci di questa corrente usarono il linguaggio erotico per descrivere l’unione estatica con l’Amato divino. Per esempio, Ibn Arabi descrisse l’amore come specchio della bellezza eterna: un sentimento carnale che diventa contemplazione e unione con l’Assoluto.

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Non lontano dal mondo arabo, L’Africa, con la sua ricchezza spirituale e simbolica, offre una delle visioni più profonde e sensuali del sacro. Qui il corpo è sempre stato linguaggio iniziatico e spazio abitato dal divino. Nella cosmologia dei Dogon, per esempio, la creazione del mondo avviene quando il dio Amma si unisce alla Terra, inizialmente riluttante. Dal loro rapporto violento ha origine il cosmo, che i rituali della tribù celebrano attraverso danze, maschere falliche e gesti erotici.

Qualcosa di analogo si ritrova nelle religioni tradizionali dei popoli Yoruba e Fon, diffusi tra la Nigeria e il Benin, dove la sessualità assume una funzione profondamente spirituale. Nei cerimoniali di queste genti, i sacerdoti vengono “posseduti” da divinità come Shango, emblema della virilità e della forza, oppure da Oshun, dea delle acque dolci e della grazia. Durante gli stati di trance, il corpo dell’officiante diventa teatro vivente del divino e manifestazione pubblica del suo potere. L’uomo, in questi contesti, non si limita a onorare la divinità: la incarna, la accoglie, ne diventa sposo, partecipando a un matrimonio mistico che avvicina mondi diversi. La carne, lungi dall’essere oggetto di pudore o negazione, è considerata sacra, perché sede della potenza vitale e strumento di comunicazione con l’invisibile.

Uno sguardo ai popoli dell’America precolombiana ci rivela altrettante sorprese. Presso i Maya, l’universo è narrato come il frutto dell’unione tra entità divine primordiali. I rituali sessuali, talvolta inscenati nei templi o eseguiti simbolicamente, servivano a nutrire gli dei e a mantenere l’equilibrio ciclico del tempo e delle stagioni. Tra gliAztechi, la dea Xochiquetzal, patrona della bellezza, del desiderio e dell’arte, veniva venerata con canti, offerte sensuali e celebrazioni in cui il piacere era il canale di comunicazione con il mondo soprannaturale. Tra gli Inca, invece, l’unione sacra tra Inti, dio del Sole, e Mama Quilla, dea della Luna, rappresentava il modello cosmico di ogni matrimonio terreno e ne garantiva la fecondità. Il legame di questi popoli con l’idea di una forza creatrice originaria era talmente profondo da esprimersi nella devozione per Pachamama, madre di tutte razze esistenti nell’universo. Ad essa venivano dedicate offerte quotidiane come foglie di coca, conchiglie e a volte liquido seminale.

Non tutti sanno poi che nei territori dell’attuale Nord America, molte tribù riconoscevano e veneravano la figura dei Two-Spirit: individui che incarnavano, al tempo stesso, elementi maschili e femminili. Spesso si trattava di sciamani, guaritori, o guide spirituali, il cui ruolo trascendeva le convenzioni di genere. Queste figure erano sacre all’interno della comunità e venivano percepite come portatrici di una saggezza che univa gli aspetti apparentemente contraddittori della natura.

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Alla luce dei molteplici esempi culturali che abbiamo elencato emerge una costante antropologica e psicologica profonda: la sessualità, quando sacralizzata, si colloca sempre ai margini o in prossimità del tabù. È qui, su questa soglia ambigua tra timore e desiderio, che si apre un varco verso l’ignoto, un potenziale spazio di trasformazione dell’essere. Il tabù esercita sull’animo umano un fascino inquieto e ambivalente: da un lato, rappresenta ciò che deve essere evitato, il limite invalicabile imposto dalla cultura, dalla religione e dalla morale. Dall’altro, è proprio questa interdizione a renderlo carico di attrattiva, come se nel cuore stesso del divieto si celasse una forza segreta, una promessa di rivelazione.

Il tabù, in questa prospettiva, non è soltanto una barriera sociale: è un confine simbolico che separa l’ordinario dallo straordinario, l’identità conosciuta da quella ancora in potenza.

In molte tradizioni spirituali arcaiche e iniziatiche, il confronto con il tabù è parte integrante del cammino interiore. Non si tratta di una semplice trasgressione morale, ma di una variazione di stato di coscienza. L’atto che rompe la norma - se compiuto in uno spazio rituale e con piena consapevolezza - diventa un’opportunità per risvegliare dimensioni dimenticate dell’essere. Si scopre così che ciò che ci spaventa è spesso ciò che può guarirci.

Come nel mito dello sciamano che discende nel mondo sotterraneo, l’incontro con l’oscuro non è un errore, ma un’iniziazione. Un esempio emblematico ci viene da certe scuole del Tantra indiano, le quali hanno adottato, in modo volutamente provocatorio, pratiche ritenute sacrileghe dall’ortodossia brahmanica come il consumo rituale di carne, alcol e rapporti sessuali.

Ma il senso profondo di queste pratiche non è la licenza anarchica: al contrario, esse sono strumenti potenti per trascendere la dualità tra puro e impuro, sacro e profano, corpo e spirito. L’obiettivo non è indulgere nei desideri, ma trasformarli in veicoli di conoscenza. Il Tantra insegna che l’oggetto stesso della paura o del desiderio contiene l’energia necessaria per il risveglio: si tratta di trasmutare il veleno in medicina, attraverso la presenza vigile e la disciplina interiore.

Questa intuizione si ritrova anche nel pensiero di Carl Gustav Jung, lo psicoanalista che più di ogni altro ha saputo coniugare la sapienza occidentale con le tradizioni spirituali d’Oriente. Per Jung, il tabù coincide con ciò che è stato rimosso o represso nella psiche individuale: l’Ombra, quell’insieme di desideri, paure, impulsi e potenzialità che l’Io cosciente non vuole riconoscere. Ma l’Ombra non è “il male” in senso assoluto: è la parte dimenticata dell’anima, ciò che attende di essere integrato. Nei sogni, nei miti, nei simboli religiosi, emergono spesso immagini archetipiche disturbanti - incesto, morte, eros selvaggio - che non vanno censurate né imitate, ma comprese nel loro potere trasformativo.

Jung considera il confronto con il tabù come una prova iniziatica: attraversare ciò che temiamo o ci ripugna, riconoscere ciò che ci disturba, è il primo passo verso la liberazione da un’identità fittizia, fondata su maschere sociali e difese inconsce. Solo morendo alla vecchia immagine di noi stessi possiamo scoprire il Sé autentico, l’unità profonda dell’essere. In definitiva, il tabù non è un nemico da combattere, ma una soglia da attraversare con coraggio e intelligenza simbolica. Superarlo non significa compiere il male, ma integrare ciò che è stato escluso, risanare la frattura tra corpo e spirito, tra desiderio e coscienza.

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In tutte le civiltà evocate in queste pagine, la sessualità non fu mai concepita come un semplice istinto animale. Essa si configurava, piuttosto, come un gesto primordiale e sacro, un idioma simbolico capace di articolare ciò che le parole non osano dire. L’amplesso, lungi dall’essere un fatto privato o meccanico, era vissuto come rito e rivelazione, come soglia estatica tra i mondi. In tutti questi universi arcaici, l’eros era un sacramento, un ponte tra l’umano e il sovrumano, tra la caducità della carne e l’eternità dell’anima.

Ma che senso ha, oggi, rivolgere lo sguardo a tali memorie remote, frammenti di una realtà ormai dissolta? Eppure esse parlano ancora ha chi ha voglia e pazienza d’ascoltare. Oggi più che mai, in un tempo che ha smarrito il linguaggio del sacro e ha profanato il corpo fino a farne merce, apparenza e consumo, riscoprire queste antiche visioni significa accogliere un modo nuovo di essere al mondo: una possibilità in cui la carne non è nemica dello spirito, ma sua alleata; in cui il desiderio non è colpa o svago, ma forza trasformatrice.

È un invito a reintegrare il sacro nella materia, a recuperare il mistero che vibra nel contatto, lo splendore nascosto nel gesto amoroso. Queste narrazioni antiche si offrono come chiavi iniziatiche, capaci di aprire varchi verso una nuova consapevolezza del corpo e dell’anima. Perché l’eros, quando non è svilito o censurato, può divenire via di conoscenza, cammino di risveglio, liturgia silenziosa che riconnette la creatura al cosmo. Non si tratta, dunque, di un ritorno al passato, ma di un avanzare verso il profondo.

Bibliografia

  • Eliade, Mircea. Trattato di storia delle religioni. Bollati Boringhieri, 1994.
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  • Leach, Edmund. Sex and Society. Oxford University Press, 1971.
  • Rouget, Gilbert. La musique et la transe. Gallimard, 1980.
  • Bastide, Roger. Le religions africane. Einaudi, 1972.
  • Clastres, Pierre. La società contro lo Stato. Feltrinelli, 1977.
  • Tedlock, Dennis. Popol Vuh: The Mayan Book of the Dawn of Life. Simon & Schuster, 1996.
  • Turner, Victor. The Ritual Process. Aldine Publishing, 1969.
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