
Il Tao e l’Arte del Lasciar Essere
Alessandro RusticelliCapire il Taoismo non è facile, soprattutto per chi non ha mai vissuto in Cina né ha respirato la sua cultura millenaria. Ma forse è proprio questa lontananza ad affascinare così tanto, spingendo molti a voler penetrare il suo mistero...
Il Taoismo s’interessa al benessere dell’uomo; questo è il punto centrale, ahimè spesso frainteso dagli intellettuali. Il messaggio è che per star bene fisicamente e mentalmente (i due concetti non sono separati) bisogna essere in sintonia col ritmo naturale della vita, col fluire stesso dell’esistenza. Ai tempi d’oro del taoismo non esisteva ancora il concetto odierno di mente, né la psicologia; quando leggiamo i classici di questa tradizione dalla nostra prospettiva moderna, ci sembra che descrivano qualcosa di astratto, una realtà metafisica nascosta dietro quella ordinaria, ma non è così.
Se potessimo incontrare Laozi e dirgli che interpretiamo il tao come una legge remota e trascendente, ci darebbe una bella bastonata in testa! Il tao infatti è la realtà che viviamo proprio qui e ora, con il suo continuo cambiamento; per vivere bene - in maniera virtuosa direbbero i saggi cinesi - dobbiamo solo riscoprire come entrare in contatto con essa. Cosa non facile per noi occidentali che, spinti dal bisogno di sicurezza, tentiamo compulsivamente di ordinare il mondo in categorie nette e distinte.
Per il Taoismo pensare all’assoluto è assurdo: si tratta di un esercizio intellettuale che non serva a nulla. Piuttosto bisogna comprendere in maniera incarnata, sentire con ogni fibra della nostra persona, l’esistenza di cui siamo parte, superando la visione rigida che abbiamo del mondo e di noi stessi.

Un tranquillo tempio taoista nel Nord-est di Taiwan
Il concetto che forse meglio di altri riassume tutto ciò è quello di Wu Wei (無為). Letteralmente significa “non agire”, ma questa traduzione rischia di ingannare. Il Wu Wei non ci invita all’inattività, né a un torpore passivo, bensì a un modo di stare al mondo che scorre con la stessa naturalezza dell’acqua che trova la sua via tra le rocce. È l’arte di agire senza forzature, di lasciar accadere senza imporre la nostra volontà a ciò che vive e continuamente si trasforma. Il Tao Te Ching, il testo fondativo di questa “filosofia”, esprime il principio con queste parole: “Il saggio non agisce, eppure nulla rimane incompiuto”.
Qui la saggezza non è nel moltiplicare gli sforzi, nell’affannarsi dietro a risultati e conquiste, ma nel liberarsi dalla compulsione di controllare e modellare ogni cosa secondo i desideri dell’Io. La via (Tao) si dispiega da sé e il compito dell’uomo è imparare a seguirne il ritmo, piuttosto che combatterlo.
Ciò che sorprende è che un’eco di questa intuizione risuona anche nel cuore della filosofia occidentale. Martin Heidegger, uno dei pensatori più enigmatici e discussi del Novecento, ha riflettuto a lungo sul modo in cui tutti noi ci rapportiamo all’essere. Egli vedeva nella modernità una continua tentazione di dominio: il mondo ridotto a oggetto da calcolare, organizzare, consumare.
Questa smania di possesso non lascia spazio a un autentico incontro con ciò che è. Nei suoi scritti più maturi, come “l’Abbandono”, il filosofo di Meßkirch propone un atteggiamento diverso, che richiama da vicino la sapienza cinese. Parla infatti di una disponibilità interiore che non impone, ma accoglie; un’apertura che non forza, ma permette.
Come il Tao, suggerisce di seguire il flusso senza opporre resistenza. Heidegger ci invita a sostare nell’apertura dell’essere, senza ridurlo a semplice strumento della nostra volontà. Due mondi, due lingue, due epoche distanti: eppure il gesto è lo stesso, quello del lasciar andare il controllo ossessivo per abitare la vita con maggiore autenticità.

Il maestro di meditazione Tulku Urgyen Rinpoche Durante la pratica dello Dzogchen
Non è forse questo lo scopo principale della meditazione? Sebbene né i taoisti, né Heidegger promuovessero questa pratica, essa è forse il luogo in cui il significato profondo del Wu Wei appare più evidente. Non si tratta di forzare la mente a essere quieta, né di costringerla entro schemi precostituiti, al contrario, il praticante impara a permettere che i pensieri sorgano e svaniscano come nuvole in un cielo aperto. Non v’è lotta, né repressione: soltanto una presenza silenziosa, che lascia accadere senza identificarsi.
“Nella Via di Mezzo, la mente ordinaria è il termine più semplice. È il modo più immediato per descrivere com'è realmente la nostra natura. Significa che nulla deve essere accettato o rifiutato; è già perfetto così com'è. Non proiettatevi all'esterno, non ritiratevi interiormente... non è necessario inseguire uno stato forzato di calma. Dobbiamo liberarci dai pensieri dei tre tempi [passato, futuro e ruminazioni sul presente]. Non c'è niente di più facile di questo. È come indicare lo spazio. È così. Quello è il momento in cui non è richiesto alcun fare. L'essenza della mente è originariamente vuota e senza radici. Sapere questo è di per sé sufficiente”
Da questa disposizione scaturisce una tranquillità che non è artificiale. È la serenità del fiume che, non opponendosi agli ostacoli, li aggira; la fiducia della mente che, ritrova la sua armonia originaria, quella che Morihei Ueshiba - l’educatore giapponese e fondatore dell’Aikido - chiamava “aiki”. Il riferimento a questa disciplina non è casuale: ho praticato l’Aikido per anni sotto la guida di un maestro cinese, che oltre a insegnarmi la tecnica ha cercato - nonostante le immense difficoltà linguistiche - di trasmettermi un modo di vivere, per l’appunto quello del Taoismo. Il mio viaggio è stato travagliato e pieno di dubbi, ma alla fine ho imparato che se si vuole ottenere qualcosa, bisogna smettere di stringere il pugno: è molto più saggio aprire dolcemente la mano. Se si vuole arrivare, bisogna fermarsi e imparare a cogliere la direzione dell’energia che guida le nostre vite. Ma questa è un’altra storia, che forse affronteremo ancora altrove.

L’autore e il maestro Jian durante una dimostrazione di Aikido a Taipei. La tecnica non solo incarna i principi taoisti della risposta naturale e senza sforzo, ma anche visivamente rimanda alla forma del simbolo del tao.
Per tornare al discorso della pratica meditativa, un maestro tibetano - Tulku Urgyen Rinpoche - era solito dire che quando rimaniamo senza far niente, c’è un totale lasciar andare. Quando ciò accade scopriamo la sensazione di essere completamente svegli, una qualità della mente che non è fabbricata, ma del tutto innata. È questa secondo il Buddismo Tibetano la forma più alta di meditazione, quella in cui meditare non è più un atto ma una postura spontanea della mente.
Ne hanno parlato in molti da Tich Nath Han a Krishnamurti, passando per i maestri Zen della tradizione giapponese. Per tutti, questa spontaneità è la forma più alta di spiritualità. Ma attenzione a non fraintendere: nel taoismo e nello zen la naturalezza (ziran ⾃然) e la non-azione non significano rassegnarsi passivamente a tutto ciò che accade, compreso il male. Si tratta piuttosto di agire senza forzature, senza muoversi contro il ritmo naturale delle cose. È un modo di fare che non nasce dall’indifferenza, ma dall’armonia con la realtà. Ciò che chiamiamo “male” invece è il risultato di uno squilibrio, e lo squilibrio porta sempre sofferenza. Non agire significa contribuire al ristabilire l’armonia, non perpetuare la disarmonia!