Animismo in Giappone e i fantasmi delle cose
Ho sempre saputo che i giapponesi sono animisti, ma non ci avevo mai pensato seriamente fino a che un banale incidente ha cambiato completamente la mia prospettiva.
Ero con alcuni amici giapponesi quando ho notato che una di loro stava scarabocchiando su una lavagna. Ho guardato per vedere cos'era e ho notato che era un ombrello monocolo. Che però camminava su due zampe.
Le ho chiesto spiegazioni e Jun mi ha risposto che era il fantasma di un ombrello rotto.
"Come sarebbe a dire il fantasma di un ombrello rotto?"
Si è messa a ridere e ha schizzato un altro fantasma. Questa volta si trattava del fantasma di una lanterna rossa rotta. Ha perfino aggiunto un particolare truculento. Alla lanterna stava sporgendo un palmo di lingua, che veniva trafitta da una lama incandescente. Allora non lo sapevo, ma si trattava di una delle maniere classiche in cui il fantasma di una lanterna viene rappresentato. Sono del parere che, con tutta probabilità, questa punizione le spetta per la sua associazione con alcol e luci rosse. Non sto scherzando. L'animismo funziona così.
La luce a cominciato a farsi strada nella mia testa. Apparentemente, gli oggetti hanno un'anima, se li rompi, li "uccidi". Uccidendoli, li trasformi in fantasmi, per giunta incazzati con te perché sei la causa prima delle loro disgrazie.
Questo evento ha avuto su di me un effetto straordinario, perché per la prima volta mi ha costretto ad affrontare la realtà dell'animismo in Giappone. Col senno di poi, mi rendo conto che l'animismo lo avevo incontrato molte volte prima, ma che lo avevo sempre interpretato come qualcos'altro, perché mancavo degli strumenti per interpretarlo correttamente. L'importanza di questo evento particolare è che non poteva essere interpretato in nessun altra maniera. Mi ha costretto a vedere.
Vi è mai capitato di notare un nome nuovo su un giornale, ad esempio di uno scrittore tedesco, solo per vederlo poi varie volte al giorno subito dopo?
È quello che mi è successo in questo caso. Da allora l'animismo è un'esperienza quasi quotidiana.
Qualche tempo dopo, stavo parlando con un'amica, quando mi ha detto che aveva buttato via delle bambole di sua figlia. Prima di gettarle aveva bendato loro gli occhi come le aveva insegnato sua madre.
Io ho subito sbottato: “Come, come, bendate? E perché?”
Aki non se lo era mai chiesto. Faceva semplicemente quello che le aveva insegnato sua madre. Però presumeva che fosse perché le bambole non riuscissero a tornare a casa. Per la cronaca, qualche tempo dopo, ho raccontato l'evento ad un'amica cinese (anche i cinesi sono animisti) che mi ha detto che, secondo lei, era perché le bambole non vedessero chi le stava buttando via.
Io sono un razionalista ad oltranza. L'unica cosa in cui credo è il dubbio metodico. Per certi versi, sono la persona meno adatta per vivere fra animisti.
Il problema è che questi animisti sono gente che conosco bene, gente a cui voglio bene. Allora mi sono messo di buona lena ad imparare qualcosa sull'animismo, giapponese in particolare. Ho scoperto che è un fenomeno complesso con riflessi inattesi e di grande importanza. È un fenomeno superficialmente affascinante e con un pizzico di comicità.
In realtà è, secondo me, un giogo orribile che castra la mente e la fantasia. Nonostante da solo non sia in grado di bloccare la crescita di una nazione (ne è prova la Cina) causa la sofferenza di molti milioni di persone senza una ragione plausibile.
In Giappone, conosciuti e sconosciuti portano un cappello per tenere al caldo le idee. I cappelli compaiono in dicembre e vengono tolti a marzo.
Continua...
Francesco Baldessari>/p>